Una economia bifronte
L’Italia si sta arricchendo di nuovo. Le imprese rialzano la testa. Ma ora tocca alla politica cambiare verso
Ma come, abbiamo attraversato un boom e non ce ne siamo accorti? Boom è una parola forte, forse meglio chiamarlo mini boom, ma in ogni caso il triennio 2015-2016-2017, secondo i calcoli dell’Istat, è stato migliore dell’altro triennio, il 2005-2007, in cui l’Italia è cresciuta prima di affondare nel maelstrom. Sembra incredibile al circo mediatico-politico che vive e prospera sul declino; non ci ha creduto chi ha votato per Matteo Salvini; non ci hanno creduto i giallo-verdi i quali hanno governato partendo proprio dal presupposto contrario contribuendo così a sfasciare il delicato giocattolo. Se ci credono i giallo-rossi lo capiremo meglio con la legge di Bilancio che vedrà la luce la prossima settimana.
L’Istituto centrale di statistica ha rivisto recentemente le serie storiche del prodotto lordo e delle sue componenti, una operazione che aveva suscitato il sospetto di voler imbellettare le cifre ad usum leghista. Ma così non è. “Sulla base dei nuovi dati, il prodotto lordo in volume è aumentato nel 2017 dell’1,7 per cento, con una revisione nulla rispetto alla stima di aprile; il tasso di crescita del 2016 è stato rivisto all’1,3 per cento dall’1,1 per cento della stima precedente”, scrive l’istituto. Entriamo nel dettaglio cominciando dai consumi delle famiglie quelli che, secondo il circo, hanno sofferto di più. Ebbene tra il 2015 e il 2017 sono cresciuti in media dell’1,5 per cento l’anno, mentre nel periodo 2005-2007 erano aumentati dell’1,3. Dati che si rispecchiano nel commercio il cui valore aggiunto è salito mediamente del 3,7 per cento l’anno. La vera impennata riguarda gli investimenti in macchinari e mezzi di trasporto, che mostrano un incremento medio del 6,3 per cento l’anno sempre nel triennio 2015-2017 rispetto al +3,6 per cento di dieci anni prima. Su questo ha inciso senza dubbio la corsa dell’auto: il settore automobilistico è stato il più dinamico e ha trascinato con sé l’intera filiera della componentistica nella quale l’Italia è forte. Ma attenzione, se prendiamo le spese per ricerca e sviluppo troviamo altre piacevoli sorprese con un più 7,2 per cento rispetto al 4,4 del periodo 2005-2007.
Che ruolo ha avuto la politica economica? Sugli investimenti privati la risposta è ovvia: Industria 4.0 ha funzionato alla grande
E il Jobs act, luogo di tutte le nefandezze per la Cgil di Susanna Camusso e di Maurizio Landini, per una parte del Pd e per tutti quelli alla sua sinistra, nonché bersaglio privilegiato dei grillini quando erano all’opposizione e poi al governo con la Lega? Il 2015, quando è entrato in scena l’incentivo alle assunzioni, mostra un balzo di 435 mila persone rispetto all’anno precedente, tra le quali 329 mila a tempo pieno. Certo il tasso di disoccupazione resta alto, troppo alto, è sceso appena sotto il 10 per cento nonostante la crescita del pil e il mercato del lavoro in Italia è un buco nero. Basti vedere l’esito disastroso del reddito di cittadinanza: la metà dei richiedenti non ne ha diritto e pochi di loro cercano sul serio un impiego. Se fallimento c’è stato e ancora c ‘è, non consiste nell’aver fatto cadere le vecchie rigidità, bensì nel non aver avviato quella che si chiama politica attiva, così come è avvenuto, invece, negli altri paesi e non solo in quelli del nord Europa.
Dopo l’entrata in vigore del Jobs Act, nel 2015, c’è stato un balzo nelle assunzioni di 435 mila persone rispetto all’anno precedente
Il boom (mini o maxi che si voglia giudicare) del triennio 2015-2017 è dovuto soprattutto alla industria manifatturiera e in parte al commercio come effetto della migliore domanda per consumi. La produzione di merci è aumentata anche in termini di valore aggiunto (+3,2 per cento rispetto all’anno), segno di una crescita della produttività che trova il suo corrispettivo nel successo (non c’è altro modo per definirlo) dell’export, che continua nonostante il rallentamento del commercio internazionale come sottolinea la Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza. L’attivo con l’estero nel 2016 ha raggiunto un vero e proprio record; siccome il pil era in ascesa, non è stata la riduzione delle importazioni a migliorare la bilancia, ma la performance delle esportazioni. E qui ci aiuta la Sace, l’agenzia che assicura le aziende che vendono all’estero. Il presidente Beniamino Quintieri, professore ordinario di Economia all’università di Roma Tor Vergata, ha messo al lavoro i suoi tecnici per avere un quadro di lungo periodo. Dal 2002 al 2018 l’export italiano è cresciuto in media del 7,2 per cento; se prendiamo la quantità di merci vendute l’aumento è di sei punti percentuali, in valore poco più (6,3 per cento). L’andamento è rimasto positivo anche nella prima metà di quest’anno e la quota delle esportazioni rispetto al pil è arrivata al 35 per cento, con un aumento di sette punti percentuali. La Germania resta il principale mercato estero, ma negli ultimi anni sono stati fatti sforzi notevoli per penetrare in Estremo oriente (Giappone in particolare, ma anche nella Cina che ha abbassato i dazi verso l’Europa in funzione anti-Trump) e per allargare gli sbocchi in America, a cominciare dagli Stati Uniti. Ecco perché il protezionismo fa molto male e non solo all’agroalimentare, che rappresenta appena l’11 per cento delle nostre vendite all’estero. La parte del leone la interpretano i macchinari e le componenti industriali. Con buona pace delle lobby agricole potentissime e influenti politicamente, quindi molto pubblicizzate anche dai media, i soldi affluiscono in Italia soprattutto dalle macchine per fare altre macchine.
Tutto questo quadro porta anche a un miglioramento complessivo del prodotto lordo pro capite salito in media annua dell’1,4 per cento nel triennio 2015-2017, mentre tra il 2005 e il 2007 era cresciuto dello 0,8 per cento. E’ vero, bisogna trattare con cura un tale indicatore perché la popolazione italiana si riduce, quindi basta poco per migliorare la percentuale. Tuttavia l’incremento supera quello medio dei sette paesi più industrializzati: +1,5 in Italia nel 2016, +0,9 nel G7; mentre l’anno successivo ha visto un +1,9 italiano rispetto a +1,7% medio del G7. Nonostante ciò, siamo ancora al livello del 2010, insistono i pessimisti, mentre gran parte dei paesi europei ha pienamente colmato la perdita provocata dalla grande crisi. E’ il lato più oscuro dell’economia italiana, che getta un’ombra anche sui risultati più positivi. Tra il 2015 e il 2017 l’Italia era uscita dal cono dello zero virgola, dove è rientrata già l’anno scorso e dove s’avvia a restare. Due mini boom non fanno un vero boom, se poi sono gli unici in vent’anni è chiaro che non possono invertire la stagnazione di lungo periodo.
“Siamo l’unico paese dell’Eurozona, insieme alla Grecia, a non aver recuperato il calo degli anni della crisi”
Chi osserva la realtà rasoterra, chi sta a contatto diretto con famiglie e imprese come i commercialisti che ormai non si limitano a riempire le cartelle del fisco, ma sono veri e propri consulenti economici, non condivide l’immagine rosea che vien fuori dalle nuove statistiche ufficiali. Il primo barometro costruito dal Censis e dal Consiglio nazionale dei dottori commercialisti, presentato martedì scorso, ha raccolto il parere di quattromila professionisti. Il principale risultato è che le famiglie soffrono, ma le imprese ancor di più. Le grandi se la cavano meglio delle piccole sulle quali si è abbattuta non una crisi, ma una catastrofe. Le micro-imprese, ancora oggi tessuto decisivo della economia e della società, subiscono di più gli impatti della situazione economica negativa e cadono a ogni stormir di fronde. “Se quel tessuto si slabbra, la crisi in potenza dell’economia diventerebbe rapidamente crisi sociale conclamata”, avverte il barometro. Un segnale molto inquietante viene dalle aziende che hanno ritardato il pagamento delle retribuzioni mensili dei propri dipendenti. Secondo i commercialisti nel futuro sarà sempre più complicato fare impresa, tanto che il piccolo imprenditore sogna la pensione (una qualche quota 100 salvifica) per se stesso e la fuga all’estero per i figli. “A forza di dare la caccia al prenditore (figura retorica demonizzante l’imprenditore) si è finito per sfiancare i piccoli e piccolissimi imprenditori, pilastro storico dell’economia italiana”, concludono all’unisono Francesco Maietta che ha condotto la ricerca per il Censis e Massimo Miani presidente del consiglio dei commercialisti.
Questo stato d’animo si ritrova anche nelle analisi della Confindustria. Nel suo terzo rapporto presentato lunedì scorso, il centro studi diretto da Andrea Montanino sottolinea non solo che siamo in piena stagnazione, ma che l’economia italiana resta comunque sotto i valori pre-crisi: a politiche invariate, infatti, (senza aumenti Iva dunque), il pil a fine 2020 si attesterebbe poco sotto i livelli raggiunti del 2011 ancora inferiori del 4,3 per cento rispetto ai massimi del 2008. “Siamo l’unico paese dell’Eurozona, insieme alla Grecia, a non aver recuperato il calo degli anni della crisi”, spiega desolato Montanino. Il rapporto conferma che l’export continua ad andare bene, anzi fa meglio di quello tedesco e proprio dal brusco rallentamento della Germania viene, come sappiamo, la minaccia peggiore alla congiuntura. Innocenzo Cipolletta presidente di Assonime (l’associazione delle imprese quotate in borsa) e Stefano Micossi direttore generale, hanno presentato giovedì un quadro inquietante per il prossimo futuro. L’economia italiana è in crescita zero e “per i prossimi mesi sembrano prevalere segnali negativi: l’indice pmi (Purchasing Managers’ Index) indica una flessione dell’attività nei mesi estivi, gli indicatori annunciano un indebolimento degli investimenti nel terzo trimestre e l’indice di fiducia delle imprese a settembre ha registrato una diminuzione”.
Ci troviamo nel bel mezzo di una grande trasformazione alla quale solo una parte dell’economia e della società italiana è preparata (non parliamo della politica). Prendiamo le imprese manifatturiere: oggi sono ben 390 mila (per lo più con meno di dieci addetti) e tra il 2010 e il 2016 si sono ridotte di 70 mila unità, spiega il professor Quintieri. Quelle rimaste lavorano meglio e producono di più, lo indica il dato sul valore aggiunto. Ciò ha un costo sociale e una ricaduta politica. I governi di questi ultimi anni hanno inondato il paese di retorica e demagogia, cavalcando il disagio, il rancore, la paura, ma non hanno offerto soluzioni. Se la manifattura mostra una notevole capacità di assorbire sia la globalizzazione sia la rivoluzione digitale, il settore terziario dal quale proviene la maggior parte del prodotto lordo è duro a cambiare. Questo riguarda il commercio, se si escludono le grandi catene, e riguarda la pubblica amministrazione dove l’innovazione tecnologica complica anziché semplificare la vita, sovrappone invece di sfoltire. Ma la ristrutturazione ha investito le banche italiane, in netto ritardo rispetto a quelle straniere, creando disagi ai clienti e licenziando migliaia di bancari.
Le imprese manifatturiere oggi sono 390 mila (per lo più con meno di dieci addetti) e tra il 2010 e il 2016 si sono ridotte di 70 mila unità
L’Italia sembra il paese di Alice dove il sotto sta sopra e la destra a sinistra. Prendiamo la questione delle tasse. I redditi bassi pagano troppo e più degli altri. Questo è quel che si dice. Invece succede il contrario. Lo abbiamo già scritto su queste colonne raccontando la giungla fiscale, ma val la pena ripeterlo anche perché un esperto senza paraocchi come Alberto Brambilla, presidente di Itinerari previdenziali, lo ha scritto lunedì scorso sull’inserto economico del Corriere della sera: in base alle ultime dichiarazioni dei redditi ai fini Irpef risulta che oltre il 46 per cento degli italiani (i primi 2 scaglioni di redditi) paga meno del 2,7 per cento di tutta l’Irpef, in totale 4,32 miliardi, ma ne riceve per la sola sanità ben 47. Se poi aggiungiamo anche i contribuenti che dichiarano dai 15 ai 20 mila euro lordi, ne consegue che i primi tre scaglioni di redditi versano in totale 15,8 miliardi di Irpef (su un totale di 164,7), ma ricevono per le sole cure sanitarie 51,2 miliardi. Se ne deduce che il 60 per cento dei contribuenti (lavoratori dipendenti compresi) versa attorno al 10 per cento di tutta l’Irpef. Alla faccia della progressività. Le imposte dirette pesano soprattutto sui redditi medi. Pagano poco sia quelli alti (l’1,1 per cento dei contribuenti dai quali viene un miliardo di euro e poco più) sia quelli bassi. Se questo è vero, l’intera politica fiscale è da rovesciare.
In conclusione, i governi Renzi-Gentiloni hanno fatto crescere l’economia. L’Italia si sta arricchendo di nuovo. Non è vero che i poveri sono tartassati. Le imprese rialzano la testa, le grandi più delle piccole. Però i servizi non funzionano e i giovani non lavorano. Ma allora come sta veramente questo paese; quante facce ha e chi è in grado di decifrarle? Fa bingo chi può rispondere. Non viviamo certo nel migliore dei mondi possibili. Ma non viviamo certo nel mondo che ci ha raccontato per anni il circo mediatico-politico.