La sparizione del cash nel sistema monetario
Non solo privati. Così le Banche centrali vogliono battere la loro valuta digitale
La rigogliosa fioritura di valute digitali dell’ultimo decennio ha innescato una profonda trasformazione nella teoria e nella pratica monetaria, analizzata da un paper diffuso dal National Bureau of Economic Research (“The digitalization of money”) che traccia un parallelo molto interessante fra le intuizioni contenute in un libro di Friedrich Von Hayek degli anni 70 (“Denationalisation of money”) e l’evoluzione determinata da internet, che ha consentito a soggetti privati di emettere moneta. Diventa improvvisamente attuale l’ipotesi di una moneta emessa dai privati quale valida alternativa alla moneta pubblica fondata su una banca centrale indipendente e, indirettamente, sul potere impositivo del governo. Il paper del Nber arriva ad alcune conclusioni. La prima: “Le valute digitali presentano innovazioni che separeranno le tre funzioni dal denaro, rendendo la concorrenza tra valute molto più accesa”. La seconda: “L’importanza della connessione digitale porterà alla creazione di ‘Aree valutarie digitali’ (DCA) che collegano la valuta alla gestione di una determinata rete digitale piuttosto che a un paese specifico”. Potrebbero nascere monete “denazionalizzate”, proprio come aveva immaginato Von Hayek, anche se su basi completamente diverse, e strumenti di pagamento che incorporano anche singole funzioni della moneta. In pratica una rivoluzione del sistema monetario internazionale.
Le valute digitali possono essere di vario genere: criptovalute indipendenti, come Bitcoin; stablecoin, ossia agganciate ad altre valute, come la futura Libra di Facebook o il già esistente Usd Coin, o versioni digitali di monete fiat già esistenti, come quella a cui sta lavorando la Banca centrale cinese. Possono essere emesse da entità private o da una banca centrale. Uno scenario dove prevalgano le prime implica una perdita di importanza del sistema bancario, semplicemente scavalcato in un modello de-centralizzato e disintermediato. In uno scenario dove prevalgano le seconde, il sistema rimarrà basato sulla fiat currency pubblica, ma in versione 2.0.
“E’ difficile concordare con gli apocalittici che pronosticano la fine delle banche”, scrivono Riccardo De Bonis e Maria Iride Vangelisti in un libro uscito di recente (“Moneta, dai buoi di Omero ai Bitcoin”, il Mulino). “Le fintech aumenteranno la concorrenza tra gli intermediari, porteranno a nuove innovazioni dell’offerta bancaria e a riduzioni possibili del numero delle banche, ma non alla loro scomparsa”. Si immagina quindi una sorta di complementarietà fra i due scenari che abbiamo tratteggiato che però hanno una cosa in comune: possono fare a meno del contante. Tutto sembra portare in questa direzione. E molti ne sarebbero felici. La tecnologia, dicono, trasformerà il dannoso denaro analogico (vedi Kenneth S. Rogoff, “La fine dei soldi. Una proposta per limitare i danni del denaro contante”) in un utilissimo denaro digitale. Lo sterco del demonio diventerà cioccolata.
E qui arriviamo alle cronache. Del lancio di Libra si ricordano le numerose levate di scudi. Di Donald Trump, per esempio, una volta tanto d’accordo col governatore della Fed Jerome Powell. Ma in generale di molti banchieri centrali. Benoit Couré, componente francese del board della Bce, osserva come “le stablecoin globali, come la Libra, si riveleranno dirompenti”, auspicando “un ambiente in cui i sistemi di pagamento pubblici e basati sul mercato si completino a vicenda”. Una visione che le cronache rendono già attuale e non solo nelle economie avanzate.
Nell’iconografia corrente il contadino del paese emergente ormai si raffigura con uno smartphone in mano, non con la carta di credito, che non ha mai avuto e non ha neanche adesso. E non è un caso. In Cina, patria di moltissimi minatori di Bitcoin, alla moneta digitale sponsorizzata dalla banca centrale potrebbero partecipare i giganti locali di internet con le loro frequentatissime app di pagamento. Quest’anno Alipay ha raggiunto gli 870 milioni di utenti e il volume trimestrale degli scambi mediati dalla piattaforma quota sette trilioni di dollari. Se dalla Cina ci spostiamo in India lo scenario cambia poco. Nel luglio scorso un comitato interministeriale aveva suggerito di mettere fuorilegge tutte le monete virtuali, salvo poi suggerire lo sviluppo di una moneta digitale emessa dalla banca centrale, che sembra l’ideale completamento della riforma monetaria indiana culminata nella demonetizzazione delle banconote di grosso taglio. Ma al momento le monete virtuali ci sono ancora e secondo alcune indiscrezioni rilanciate dal giornale on line The Verge, il ceo di Facebook Mark Zuckerberg avrebbe parlato di test sulla circolazione di Libra in corso proprio in India, oltre che in Messico. Proprio in Messico, alla fine del settembre scorso, il governatore della banca centrale ha presentato una nuova piattaforma per i pagamenti digitali che ha il fine dichiarato di ridurre l’uso del contante tramite lo sviluppo di pagamenti via app telefoniche collegate al circuito bancario. Se dall’Asia e l’America latina ci spostiamo in Africa, troviamo quello che alcuni osservatori chiamano il paradiso delle criptovalute. Botswana, Ghana, Kenya, Nigeria, Sud Africa e Zimbawe sono massicci utilizzatori di Bitcoin. Alcuni lo usano per difendersi dall’inflazione, ma riescono a farlo soprattutto perché c’è stato uno sviluppo notevole delle infrastrutture informatiche che favoriscono la diffusione degli smartphone. Si stima che entro il 2020 si saranno oltre 720 milioni di sottoscrittori di contratti telefonici. L’industria della Mobile money, ossia dei pagamenti svolti tramite app, è in crescita costante con transazioni cresciute dieci volte dal 2011 in poi. Fra i servizi più noti alle cronache c’è M-Pesa, servizio di pagamenti mobili tramite credito telefonico sviluppato sulla rete mobile Safaricom che secondo la banca centrale del Kenya ha fatto circolare oltre 38 miliardi di dollari fra i suoi 40 milioni di aderenti. L’Africa d’altronde è la terra dove l’anno scorso metà degli investimenti delle startup sono andati al fintech.
Tutto ciò mentre nei paesi avanzati le cronache sulle valute digitali si rincorrono freneticamente sotto gli occhi ansiosi di regolatori, economisti e banchieri. E dei governi. Ognuno di loro guarda cose diverse, ma fondamentalmente arriva alla stessa conclusione: nel sistema monetario che verrà, col vecchio monopolio pubblico del denaro (e del sistema dei pagamenti) insidiato dai privati, le vecchie banconote non servono più e anzi sono “dannose”. Nel meraviglioso (e vagamente oppressivo) mondo digitale che stiamo costruendo un simile strumento analogico è un “barbarous relic”, come ebbe a dire Keynes dell’oro. Roba fuoricorso. Su questo governi, banche centrali e giganti hi tech troveranno di che intendersi.