Appunti per affrontare la grande fuga dei giovani dall'Italia
Lo sviluppo economico e tecnologico non abita qui. Tra assistenzialismo, tasse per i campioni digitali e bassa produttività
Nelle scorse settimane si è tornati a parlare dei giovani italiani che lasciano il paese per lavorare all’estero. Dal 2014 sono circa 150 mila all’anno, valore più che triplicato rispetto a un decennio fa. Sono numeri cruciali per il futuro del paese anche perché, a differenza di un secolo fa, oggi partono i ragazzi più istruiti. E’ di pochi giorni fa la notizia, riportata da un rapporto della European Startup Initiative, che negli ultimi 4 anni il 20 per cento dei fondatori di aziende innovative italiane ha lasciato il paese. Le cose non vanno bene nemmeno per i ragazzi meno capaci: la quota di quelli tra 15 e 25 anni che non partecipano né al sistema dell’istruzione né al mondo del lavoro è salita al 25 per cento in Italia, contro il 17 per cento della Spagna, il 15 per cento della Francia e il 10 per cento della Germania.
Questi numeri dimostrano che le prospettive offerte alle nuove generazioni sono pessime. I giovani capaci vanno a cercare quel che non trovano a casa: impieghi ben remunerati, aziende e centri di ricerca dove si fa carriera in base al proprio merito, più in fretta, e a condizioni economiche generalmente migliori. I meno bravi non trovano strade adatte e rimangono esclusi dal sistema produttivo. Inutile recriminare contro le imprese. Le aziende che i giovani cercano altrove sono rare in Italia, perché il paese non ha saputo o non ha voluto scegliere di investire nelle nuove tecnologie e nella concorrenza, scelte che richiedono il coraggio e la lungimiranza politica di gestire la graduale scomparsa dei settori in declino. E’ pertanto futile chiedere alle aziende di “fare qualcosa”. La maggior parte di esse non possono farlo. In un paese popolato prevalentemente da piccole aziende a gestione familiare, lontane dai mercati globali, con poca digitalizzazione e automazione, le prospettive di un giovane professionista sono limitate per necessità. Chi vuole che le imprese cambino non capisce che la loro struttura riflette le caratteristiche di fondo dell’ambiente in cui si muovono: scuole, fisco, sistema giudiziario e finanziario, regolamentazione. Si pensi alla poco incisiva politica della concorrenza, all’accanimento terapeutico rispetto a imprese in perdita da decenni (Ilva, Alitalia), alla strenua, e spesso efficace, opposizione mostrata dai politici di ogni fazione nei confronti delle nuove tecnologie (Amazon, Netflix, Uber, la grande distribuzione). Nelle classifiche europee delle nuove aziende di successo, quelle che registrano tassi di crescita a doppia cifra e fatturati grandi, non si trovano aziende italiane. Le uniche nostre imprese in classifica sono mature (Fiat, Generali, Eni, Enel), segno che il paese non é stato in grado di produrre nuovi campioni nazionali. Triste infine rilevare come il paese non sia nemmeno riuscito a trattenere in patria il quartier generale dei campioni che hanno saputo cogliere con successo la sfida della globalizzazione (Ferrero, Fiat).
A fronte di questi dati, è drammatico osservare che il dibattito sulla stagnazione italiana si concentri quasi completamente sui problemi di “domanda”, la continua lamentela che “non ci sono abbastanza risorse” (per finanziare nuovi progetti tramite spesa pubblica, o privata). Le quotidiane scaramucce su quota 100, la flat tax, l’Iva, i navigator, il mitico recupero dell’evasione, sono dannose perdite di tempo che distraggono il dibattito dall’unico importante obiettivo per il paese: tornare a crescere. Per invertire la rotta bisogna prima di tutto riconoscere che il problema principale viene dalla stagnazione della produttività. Questa variabile, che misura la quantità di ricchezza prodotta da un’ora di lavoro, è quella che più di tutte inquadra il problema rispetto ai nostri partner globali. E’ difficile identificare con certezza le cause sottostanti alla stagnazione ma alcuni dei migliori ricercatori del continente lavorano da anni a queste domande e hanno risposte interessanti. Un’analisi recente di Fabiano Schivardi e Tom Schmitz, pubblicata sul Journal della European economic association e riassunta martedí sul sito de Lavoce, mostra che una parte significativa del ritardo dei paesi del sud Europa si spiega con la lentezza nell’adozione di tecnologie informatiche (It). Lo studio evidenzia come il ritardo sia particolarmente dannoso in presenza di pratiche manageriali inefficienti (misurate dal World management survey). Questo perché It e pratiche manageriali sono complementari, e l’analisi mostra che tale interazione è divenuta molto più importante negli ultimi venti anni. Purtroppo i dati indicano anche che il nostro paese è indietro su entrambi i fronti. E’ certamente un peccato aver perso l’opportunità di agganciarsi a questa grande onda d’innovazione. E’ necessario correggere la rotta, perché per nostra fortuna, e nonostante la continua emorragia di cervelli, nel paese rimangono ancora risorse per affrontare queste sfide. Serve un cambio di paradigma, che sposti lo sguardo dai problemi contingenti della “insufficiente domanda” al quadro di lungo periodo, mettendo al centro del dibattito la struttura produttiva del paese, la formazione e la cura del suo capitale umano e imprenditoriale, a partire dalle scuole, alle università fino alla politica industriale, del lavoro e della concorrenza. Guarire il paese sembra oggi improbabile, vista la povertà di idee del dibattito economico italiano. Ma dati e logica dimostrano che, una volta identificata la natura del problema, la strada per tornare a crescere esiste.
Francesco Lippi, Università Luiss ed Eief
tra debito e crescita