Il voto del nostro swing state si gioca su export e manifattura
Il futuro economico dell’Umbria (si vota il 27 ottobre) è lo specchio delle opportunità non colte dall’Italia. I dati Cna
Dal 2010 al 2017 l’Umbria ha perso 8,2 punti di Pil rispetto alla media nazionale di meno 0,2. La tendenza che si era invertita (più 0,9) nel 2018 è tornata in negativo nel 2019, con previsione di meno 0,2. Nel 2020 la ricchezza prodotta dovrebbe tornare a crescere, di due modesti decimali, meno della metà di sotto della già non esaltante performance nazionale. In definitiva, il decennio 2010-2020 costerà all’Umbria 7,3 punti di ricchezza, rispetto ad un recupero dell’Italia dell’1,3 per cento. Da questi dati della Cna, la Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola impresa umbra, si capisce perché la regione che per tutto il dopoguerra è stata rossa possa divenire l’Ohio d’Italia. Lo stato simbolo del Midwest dal 1980 è lo “swing state” per eccellenza, in quanto dal 1980 i suoi umori si ribaltano ad ogni elezione presidenziale identificandosi, se non determinando, nel presidente eletto (nel 2016 ha votato Donald Trump, e prima due volte Barack Obama, George Bush, Bill Clinton).
La ex cittadella rossa ha visto vincere nel 2014 e 2018 due esponenti di centrodestra a Perugia e Terni e i sondaggi non vedono favorita la appena formata alleanza tra Pd e 5 stelle. Ma più che nelle inchieste che hanno investito la sinistra ininterrottamente al potere, la causa è da cercare nell’economia. I dati del Pil ne racchiudono altri: nella classifica delle regioni per Prodotto interno lordo l’Umbria è stata sorpassata dall’Abruzzo, finendo 13ma. Il trend degli investimenti 2010-2020 segna meno 25,7 per cento rispetto a una media nazionale di meno 5,6; crollo determinato dai servizi (meno 37 per cento); il che rende la regione dipendente dall’export, in linea con quello dell’Italia, un destino simile ad alcune regioni del sud come Basilicata e Campania le cui esportazioni sono determinate dall’auto. E tuttavia anche qui non si completano le infrastrutture, soprattutto autostrade e ferrovie; Perugia ha anche un aeroporto, dedito unitamente ai passeggeri, il cui traffico è raddoppiato in otto anni ma che risulta il 31mo in Italia, alle spalle per esempio di Lampedusa, Rimini, Comiso, Ancona.
L’intensità di uso di internet da parte delle imprese è del 38,7 per cento, nove punti meno della media nazionale. L’Umbria è in gran parte in mano alla spesa pubblica, che dal 2010 è aumentata del 2 per cento, a sua volta determinata per oltre il 50 per cento da spese previdenziali: insomma, una che assorbe molte risorse per pensioni. La controprova viene dal paragone tra spesa corrente, 11 mila miliardi nel 2017, in aumento del 6 per cento rispetto al 2010, e spesa per investimenti, pari a 487 miliardi, che nello stesso periodo si è quasi dimezzata. Eppure, rileva la Cna, la regione ha un tasso di imprenditorialità superiore al resto d’Italia, con 9,1 imprese attive ogni mille abitanti, meglio di Emilia-Romagna e Veneto. Ma la stessa Cna sottolinea la dimensione delle imprese (piccola) in linea con quella demografica della stessa regione: l’organico medio è di 3,5 addetti. Ma questi dati come quelli sulle pensioni non devono far pensare a una terra di inattivi: il tasso di occupazione nel 2018 è stato del 63 per cento, in aumento sul 2010 e quasi cinque punti oltre la media italiana. “L'export che ha rappresentato l'ancora di salvezza per il sistema imprenditoriale italiano, soprattutto manifatturiero, e ha avuto effetti importanti anche sull’Umbria”, osserva Roberto Giannangeli, direttore di Cna Umbria. La fotografia di un perfetto swing state, che più che assistenzialismo aspetta una ricetta economica diversa.