Assemblaggio della Jeep allo stabilimento Fca di Melfi (foto LaPresse)

Auto di stato e di famiglia

Renzo Rosati

Così gli interessi dei governi si incrociano con quelli delle dinastie dei motori. Ricognizione

Roma. Il governo francese “sarà particolarmente vigile sulla conservazione dell’impronta industriale che potrebbe nascere dalla fusione tra Psa e Fiat Chrysler Automobiles, sulla governance futura e sugli interessi del patrimonio di BpiFrance, con particolare riguardo all’impegno del nuovo gruppo nella creazione di un’industria europea delle batterie per auto”. Il ministro dell’Economia di Parigi, Bruno Le Maire, ha diffuso ieri un comunicato che, oltre a porre i tradizionali paletti nazionalistici, assomiglia ad un sostanziale via libera alle nozze tra Psa e Fca (“il governo è consapevole del consolidamento globale dell’industria dell’auto”, aggiunge Le Maire); ben diverso dalle difficoltà frapposte a suo tempo da Emmanuel Macron a John Elkann quando l’erede di Gianni Agnelli condusse infruttuose trattative per la Renault, salendo fino all’Eliseo.

 

In Francia lo stato è presente in Peugeot-Citroen con una quota di circa il 12 per cento, maggiore azionista alla pari con la famiglia Peugeot e i cinesi di Dongfeng, i quali erano da tempo dati in uscita e adesso presumibilmente osserveranno gli sviluppi, compresi gli ostacoli che la loro presenza incontrerà per lo sbarco di Psa, attraverso l’alleanza con Fca, negli Stati Uniti. E dunque la maxi-trattativa, che potrebbe essere finalizzata oggi attraverso lettere d’intenti, accende i riflettori su un aspetto particolare dell’industria mondiale dell’auto: la presenza di un consistente controllo pubblico, assieme a quello altrettanto rilevante delle famiglie fondatrici. Un ibrido tra compagnie di bandiera sotto altre vesti, privati e mercato. In Francia lo stato è in Psa attraverso Bpi, una banca di investimenti pubblica partecipata alla pari dalla Caisse des Depòts e dall’agenzia governativa Epic; mentre lo è direttamente nella Renault con il 15 per cento.

 

Il numero uno europeo e mondiale, il gruppo Volkswagen, ha invece azionista per il 20 per cento il Land della Bassa Sassonia: e stiamo parlando di tre dei primi quattro gruppi d’Europa. L’altro, che per vendite si colloca al terzo posto, è interamente privato ed è proprio Fca: il che vale molto a ridimensionare le periodiche lamentele da destra e sinistra sugli aiuti pubblici ricevuti dal Lingotto. Ci sono stati, certo, ma ben inferiori alle iniezioni dirette di capitale pubblico franco-tedesche. E se oggi con il governo giallorosé come con quello gialloverde c’è la nostalgia per l’Alitalia come compagnia di bandiera, magari le vere compagnie di bandiera, appunto, stanno altrove. La differenza è che creano valore per gli azionisti, cioè i contribuenti; anche nei momenti difficili.

 

Il governo di Parigi è entrato in Psa nel 2012, nel pieno della crisi, con prestiti obbligazionari successivamente convertiti in azioni. In Renault e Volkwagen la mano pubblica è sempre stata presente, ma la cancelliera Angela Merkel ha esercitato anche altrove la propria influenza, contro il parere degli analisti finanziari, bloccando nel 2009 le avance di Sergio Marchionne per Opel, allora di proprietà General Motors, che fu poi acquisita proprio da Psa assieme alla controllata britannica Vauxall. E questo senza trascurare il salvataggio pubblico operato dall’amministrazione di Barack Obama di Chrysler e Gm, fondi poi restituiti con gli interessi.

 

Per le fusioni bussare al castello

 

L’altra singolarità del settore Auto è la preponderante presenza, oltre allo stato, del capitale familiare, spesso quello dei fondatori. Fca è controllata da Exor, la cassaforte degli eredi Agnelli, e in Psa c’è appunto ancora la famiglia Peugeot. In Volkswagen il 51 per cento è ancora della famiglia Porsche, titolare della molto più piccola casa sportiva, dinastia litigiosissima nella quale si era ritagliato un proprio ruolo (e pacchetto di voti autonomo) Ferdinand Piech, scomparso ad agosto scorso, per decenni il vero uomo forte del gruppo. Bmw, che possiede anche Rolls Royce, è in mano alla famiglia Quandt, la più ricca di Germania. Oltre Altantico, con Chrysler passata a Fca e dunque ad Exor, la vera public company, cioè ad azionariato diffuso, è Gm. La Ford, pur quotata, è controllata dagli ultimi discendenti di Henry Ford, con il 4 per cento delle azioni e il 40 dei diritti di voto. Neppure il Giappone si è aperto al mercato. Nissan è passata a Renault assieme a Mitsubishi, ma Toyota, secondo produttore mondiale, è ancora a maggioranza della omonima famiglia fondatrice, e così Suzuki. Sempre in oriente la coreana Hyundai-Kia è della famiglia Mong-Koo Chung, e nell’indiana Tata la famiglia omonima guida con il 19 per cento un gruppo che nell’auto controlla anche Jaguar, Land Rover e Daewoo, ma soprattutto un impero di banche, acciaierie, alberghi, infrastrutture. Difficile, a meno che non si abbia il genio di Marchionne, capire se per una fusione è meglio suonare prima al campanello di un ministero o di un castello.

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