Tutti gli inciampi del reddito di cittadinanza
Un sussidio elargito troppo in fretta, e immaginato come strumento per trovare un’occupazione. Solo 70 mila beneficiari hanno firmato il patto per il lavoro. E dell’impianto descritto nella legge mancano ancora pezzi fondamentali
Flop, fallimento, sfruttato dai furbetti che se ne stanno sul divano, percepito dai criminali. Del reddito di cittadinanza nelle ultime settimane si è detto di tutto, e prevale un forte pessimismo sull’efficacia della misura. Solo fino a qualche mese fa il sussidio era la misura cardine del Movimento 5 Stelle e pure del primo governo Conte, di cui il partito di maggioranza relativa andava fiero. Oggi invece anche gli esponenti del movimento non ne parlano più, probabilmente riconoscendo i problemi incontrati nell’attuazione.
Pochi lavori dal reddito di cittadinanza
A confermare i dubbi dei più pessimisti sono stati i dati diffusi a fine ottobre, quando si è scoperto che solo 70mila beneficiari hanno firmato il patto per il lavoro. Si tratta di un documento con cui il cittadino accetta le condizioni del reddito di cittadinanza e si dice pronto a lavorare, una volta ricevuta l’offerta giusta. Per fare un confronto, si tratta solo del 10 per cento dei percettori che possono sperare di tornare a lavorare. Una percentuale molto bassa dopo sei mesi dal varo del reddito. Eppure la legge prevedeva un percorso ben diverso: secondo il decreto approvato dal Parlamento i beneficiari sarebbero dovuti essere chiamati al centro per l’impiego entro un mese dall’accettazione della propria domanda, per fare un colloquio con i navigator. Lì si sarebbe dovuto valutare la possibilità di stipulare il patto per il lavoro, oppure nei casi più difficili e di scarse possibilità di reinserimento lavorativo richiedere l’intervento dei servizi sociali. Ma per il colloquio sono stati convocati per ora solo in circa 200mila, e quelli effettuati non raggiungono i 70mila. E questo è purtroppo solo uno dei punti deboli dell’attuale schema di contrasto alla povertà, ben descritti da Luciano Capone su queste pagine.
Una sfida persa in partenza
Per ora la fase 2 del reddito di cittadinanza è in alto mare. Il progetto di recupero dalla povertà sconta due peccati fondamentali, di cui gli addetti ai lavori avevano ben messo in guardia. Il sussidio è stato elargito troppo in fretta, per passare all’incasso di voti in occasione delle elezioni europee (in realtà le cose sono andate diversamente, come sappiamo): per giunta gli importi sono stati ricalcolati al ribasso di alcune decine di euro in media dopo il mese di maggio, e la tempistica è quanto meno sospetta. In più, e questo è il secondo grave errore di impostazione, si è immaginato il reddito di cittadinanza come uno strumento per trovare lavoro. In questo modo ne è nato un ircocervo - un po’ sussidio di disoccupazione, un po’ reddito minimo condizionato – con una missione impossibile per i centri per l’impiego (che già facevano fatica prima): dare lavoro a centinaia di migliaia di persone in povertà, spesso con probabilità di trovare un’occupazione molto basse per basse competenze, sfortunate vicende personali e una già lunga assenza dal mercato del lavoro. Per Pasquale Tridico, presidente dell’Inps, il successo del reddito di cittadinanza doveva essere misurato in termini di posti di lavoro creati. Ma non c’è errore più grande, mentre si mettono in piedi le politiche, che assegnare obiettivi irraggiungibili o incompatibili tra loro: se si vogliono creare posti di lavoro gli strumenti non sono gli stessi del contrasto alla povertà. Così si è dato gioco facile ai critici dell’intervento statale nell’economia: se questo era l’obiettivo, la sfida era già persa in partenza. La vera sfida di un reddito minimo condizionato è invece costruire una rete di protezione contro situazioni di povertà temporanee, che possono accadere a tutti. Questo andava detto, senza vergognarsene. Non è andata così: si è commesso il grave errore di alimentare aspettative irrealizzabili, di cui oggi il governo raccoglie i frutti. Sulla pelle però degli ultimi: Cristiano Gori, coordinatore scientifico dell’Alleanza contro la povertà, aveva avvertito il governo che richiedere al reddito di cittadinanza di creare centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro non avrebbe fatto altro che alzare le aspettative e rischiare – una volta mancate – di gettare il bambino con l’acqua sporca. Gori scriveva su Lavoce.info a ottobre del 2018: “alimentare adesso aspettative irrealistiche sulla capacità delle politiche contro la povertà di generare inclusione lavorativa significa spianare la strada a chi vorrà delegittimarle in futuro, quando quelle attese non si saranno realizzate”. Parole purtroppo profetiche.
Decretare fallimento, quindi?
Bastano questi numeri per definire un flop il reddito di cittadinanza e per chiederne importanti modifiche, o addirittura l’abolizione? Le cifre gridano vendetta, soprattutto per chi – qui sul Foglio e anche altrove – aveva messo più volte in guardia l’esecutivo precedente dalla voglia di fare tutto subito e (troppo) in fretta. Dell’impianto descritto nella legge mancano ancora pezzi fondamentali: i navigator stanno ancora facendo formazione, la piattaforma informatica che doveva incrociare domanda e offerta è inesistente, manca ancora il decreto attuativo per rendere realtà l’assegno di ricollocamento e quello per far partire i progetti di pubblica utilità dei comuni è stato firmato solo a fine ottobre. Questo ritardo ci fa capire due cose. Primo, che è stato un grave errore – sia politico che amministrativo – lanciare il piano degli assegni mensili senza prima mettere a punto tutta la macchina amministrativa. Ricordiamoci che per finanziare e mettere in piedi il Rei, i governi di centro-sinistra avevano impiegato anni. Un ritardo che gli viene spesso rinfacciato come colpa, ma che forse ha anche contribuito a evitare i problemi che oggi leggiamo su tutti i giornali. D’altra parte la mancanza di pezzi fondamentali al puzzle del reddito di cittadinanza ci dovrebbero mettere in guardia dall’esprimere giudizi definitivi: la valutazione andrà fatta una volta che l’intero pacchetto sarà stato messo in piedi. Al dibattito manca inoltre un numero, che invece risulta a oggi abbastanza positivo: i cittadini coinvolti per ora sarebbero circa 2,2 milioni secondo l’ultimo report dell’Inps. Tenendo conto che per l’Istat la platea massima che si potrà raggiungere è di circa 2,7 milioni di persone, il tasso di adesione all’assegno contro la povertà avrebbe già superato l’80 per cento. Una percentuale rilevante visto che a livello internazionale spesso sussidi simili vengono richieste da circa 1 povero su 6 o 7.
Attenzione alle bufale
Le critiche al reddito, inoltre, andrebbero sempre poste con estrema attenzione. Il tema è sensibile e coinvolge gli ultimi della nostra società. Non si possono permettere imprecisioni, perché - appunto – il rischio è che invece di correggere le debolezze dello schema attuale di contrasto alla povertà il governo attuale o quello venturo decida di azzerare completamente il reddito di cittadinanza. Facciamo un esempio: qualche mese fa, a partire da alcune dichiarazioni dell’allora viceministro dell’economia Massimo Garavaglia, si è diffuso un dato allarmante dai controlli sui beneficiari del reddito di cittadinanza. Dai controlli della Guardia di finanza emergerebbe infatti che “il 70 per cento dei beneficiari non ha diritto al reddito di cittadinanza”. Benzina sul fuoco per le polemiche sul pericolo delle truffe ai danni dell’Inps. Questa percentuale è stata ripetuta allo sfinimento da alcuni critici al sussidio, ma rischia di creare molta confusione. Il dato arriva dai controlli della Guardia di finanza: 7 beneficiari su 10 che hanno ricevuto i controlli dei finanzieri si sono rivelati illegittimi. Un’informazione molto diversa dall’affermare che il 70 per cento di tutti i beneficiari, controllati e non controllati, non ha realmente diritto al sussidio. Il piccolo gruppo di persone – qualche migliaia - che ha ricevuto le verifiche è infatti stato selezionato per colpire chi è più probabile stia compiendo una truffa ai danni dello Stato. A chiarirlo è anche un comunicato stampa dell’Inps: la Guardia di finanza, dopo aver ricevuto i dati dei beneficiari dall’istituto di previdenza ne esamina i profili di rischio, cioè ne individua “una piccola parte che, per come selezionata, è anche possibile raggiunga elevate percentuali di irregolarità”. Il 70 per cento, appunto. Sebbene sia un concetto statistico alla portata di tutti, spesso questo dato è stato riportato senza le giuste precisazioni.
Per decenni l’Italia è stata priva di una rete di protezione universale contro la povertà. Mentre altri paesi la introducevano alla fine degli anni ’90, per rispondere alle nuove esigenze di welfare, noi discutevamo dell’opportunità di destinare alcuni miliardi di fondi pubblici ai più poveri, sempre sospettati in realtà di lavorare in nero, evadere il fisco, nascondere qualcosa: in poche parole, di fare i furbetti. Sospetti che in effetti talvolta si concretizzano, ma che sono anche sintomo di una scarsissima coesione e fiducia sociale nei confronti della collettività (gli altri, e lo Stato). Fortunatamente sono stati superati nel 2018, con l’introduzione del Rei, e poi nel 2019 con quella del reddito di cittadinanza. Gli aspetti, tecnici e politici, da migliorare sono moltissimi: il reddito di cittadinanza è stato costruito male, in fretta e con obiettivi e strumenti sbagliati, ma pensare oggi – con una povertà ancora record – di fare tabula rasa dopo appena pochi mesi sarebbe un grave errore. Sulla pelle di chi sta peggio.