Oltre al fanalino Italia c'è una scintilla (molto francese) in Europa
A caccia dei guizzi europei nelle previsioni di Bruxelles. Li abbiamo trovati nelle riforme macroniane, in Polonia e Irlanda. Per Macron il 3 per cento è superato
Roma. Che l’Italia sia nel 2019 l’ultimo paese in Europa per crescita su 28, con uno 0,1 per cento, come risulta dalle stime d’autunno della Commissione europea diffuse, è una pessima notizia, ma non certo una sorpresa. Eravamo infatti ultimi anche nelle previsioni stagionali di luglio, maggio (sempre con lo 0,1), febbraio (con una stima però dell’1,2 a parità con il Regno Unito), e novembre 2018, sempre con il pil di quest’anno visto all’1,2: cifra contro la quale l’allora ministro dell’Economia del governo gialloverde, Giovanni Tria – con Giuseppe Conte che profetizzava “l’anno bellissimo” – insorse definendola “non attenta e parziale”. All’epoca il Fondo monetario internazionale prevedeva per l’Italia un punto di crescita nel 2019 e 0,9 nel 2010. Numeri, visti ora, in effetti “non attenti”, ma perché generosamente sovrastimati. Tornando all’oggi, nel 2020 la Commissione Ue prevede per l’Italia un aumento del pil dello 0,4 per cento (contro lo 0,7 di luglio), superiore stavolta alla crescita piatta che il governo giallorosé ha inserito un mese fa nel Def attribuendola però per mezzo punto negativo a fattori esogeni, mentre il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri afferma oggi di sperare che “si possa concludere l’anno allo 0,2”. Intanto lo spread italiano sale a 150 punti, il rendimento dei decennali italiani è superiore a quelli greci. Al di là dei numeri interi ma su decimali e anche se colpiscono in particolare gli zero virgola della Germania, penultima nella graduatoria di quest’anno con 0,4 di pil, è utile, anzi istruttivo, vedere in epoca di incertezze globali come se la cavano gli altri in Europa.
Intanto la media dell’Unione europea: la stima di crescita a luglio era dell’1,4 per cento e tale rimane a novembre; così quella della Germania. I fattori geopolitici non peggiorano altrove la situazione come per noi.
La Francia, il nostro secondo partner commerciale, è vista in crescita di 1,3 punti di pil quest’anno, stesso livello nel 2020 e poco meno (1,2) nel 2021. Il suo deficit pubblico è previsto temporaneamente oltre il 3 per cento, superare il limite era un cavallo di battaglia dei sovranisti italiani ma è diventato anche una necessità attuale per Emmanuel Macron che all’Economist ha detto che il parametro “appartiene al secolo scorso” e va superato. La Francia se lo può permettere, il suo sforamento passato è stato ben speso e in effetti provvisorio: nei prossimi due anni dovrebbe rientrare entro il 2,2; mentre il disavanzo italiano quest’anno, che è già al 2,2 dovrebbe aumentare al 2,3. Il deficit francese è in realtà in calo da due anni e l’aumento del 2019 è dovuto a misure “one off” pro industria e di sollievo fiscale decise da Macron e dal ministro dell’Economia Bruno Le Maire: un credito d’imposta pari allo 0,9 per cento del pil per la competitività e l’occupazione; e un altro 0,2 per cento per ridurre le imposte sul reddito delle persone. Di conseguenza il debito pubblico francese che nel 2018 era pari al 98,4 per cento del pil sarà a fine anno al 98,9 e al 99,2 a fine 2020. In cambio i consumi privati dovrebbero aumentare dallo 0,9 del 2018 all’1,4; la disoccupazione ridursi dal 9,1 all’8; il costo del lavoro diminuire di due punti.
Promemoria: il debito pubblico italiano è previsto in crescita fino al 137,4 per cento del pil nel 2021, a fronte di consumi stagnanti fra lo 0,2 e lo 0,3, di una disoccupazione intorno al 10 per cento e di un costo del lavoro cumulato nel triennio in aumento dello 0,3.
La Francia, dal punto di vista del sovranismo italiano, è a capo con la Germania della nota “lobby di Bruxelles” che fa e disfa i governi altrui, a cominciare dal nostro, e inoltre è capofila della “vecchia Europa”, quella dei burocrati. E’ poi anche vero che figura al 24esimo posto per crescita. Vediamo allora come se la cava un paese a governo nazionalista, di destra, fuori dall’euro, ostile all’asse franco-tedesco, ammirato da Matteo Salvini e Giorgia Meloni: la Polonia. La sua performance è invidiabile con una crescita del 4,1 per cento che le assicura il quarto posto in graduatoria. Aspirante al rango di manifattura d’Europa grazie al basso costo del lavoro, il paese ha in effetti una disoccupazione del 3,5 per cento però con un costo del lavoro orario complessivo di 8 euro, rispetto ai circa 30 italiani e ai 36 francesi; mentre il governo ha deciso di bloccare nuove richieste di aumento dei salari dopo gli incrementi degli ultimi anni. Le pensioni polacche coprono il 31 per cento delle retribuzioni medie e ci si ritira a 65 anni, con un minimo sociale garantito mensile pari a 186 euro. In perenne contrasto con l’ortodossia tedesca, Varsavia la supera però quanto a rigore di bilancio: il deficit pubblico è all’1,2 per cento e il debito al 45 per cento del pil. Il tutto, nota la Commissione di Bruxelles, con un utilizzo pressoché totale dei fondi Ue, a partire da quelli destinati all’agricoltura e ai siti industriali. Ma se guardiamo alle classifiche, svetta per l’ennesima volta l’Irlanda, paese che al contrario della Polonia è tenacemente europeista. La sua crescita è del 5,6 per cento, Dublino sta nell’euro e non ha nessuna intenzione di uscirne, in passato ha beneficiato degli aiuti europei sfruttandoli al meglio. E’ certamente anche un paradiso fiscale per i colossi del web, però non è su questo che si basa la sua economia: il governo ha per esempio puntato sulle costruzioni per sostenere l’occupazione e i consumi, e poiché mancava manodopera ha aperto le frontiere a una immigrazione regolamentata, dall’est europeo ma non solo. Gli altri settori guida sono il farmaceutico, l’informatica, la ricerca, l’e-commerce. Il tutto produce una disoccupazione del 5,2 per cento, prevista in diminuzione; e consumi privati che aumentano tra il 2 e il 3 per cento l’anno. Al costo dell’allentamento del bilancio pubblico? Neppure per sogno. Dopo il rischio default del 2012, l’Irlanda ha oggi un deficit dello 0,75 per cento che dovrebbe tramutarsi in avanzo di bilancio nel 2021; il debito pubblico, al 59 per cento del pil, è previsto in calo al 52,6. Che siano nazionalisti o europeisti, tutti hanno qualche lezione da dare all’Italia. Che però preferisce scovare alibi all’estero.