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L'anima industriale italiana è di acciaio. Ecco che significa chiudere l'Ilva

Salvatore Merlo

Non lo dice nessuno, ma l’Italia è un paese industriale. E l’industria italiana campa di acciaio, con lo stabilimento di Taranto al centro

Roma. Cos’è l’industria italiana? “Gli americani ci definiscono con quattro F”, risponde Carlo Altomonte, economista, professore della Bocconi. “Fashion, Forniture, Food and Ferrari… Che significa tutta la meccanica avanzata, che è la nostra principale esportazione. Cioè macchine. Noi costruiamo e vendiamo macchine per gli imballaggi, per il taglio, per l’automazione, ovvero i robot. E sa con cosa si fanno tutte queste macchine? Si fanno con l’acciaio”. Perdere l’Ilva equivale a un colpo sferrato al cuore del sistema industriale italiano. 

 

 

Poiché non campiamo con l’esportazione di arance, anche se Luigi Di Maio sembra avere in testa questo modello, e poiché l’idea di riconvertire l’industria metallurgica con la coltivazione delle cozze convince soltanto Barbara Lezzi, ecco che sempre più la storia dell’Ilva di Taranto assume i contorni di un disastro non soltanto in termini di occupazione (ventimila dipendenti) né di prodotto interno lordo (vale da sola all’incirca 1,4 punti di pil). “L’Italia esporta occhiali, certo, ma esporta soprattutto macchine che fanno occhiali. L’Italia esporta gioelli, ma esporta soprattutto macchine che fanno gioielli. “Facciamo prodotti alimentari, ma soprattutto macchine che fanno prodotti alimentari”, dice Adolfo Urso, viceministro delle Attività produttive nei governi Berlusconi. “E tutte queste macchine sono la prima voce delle nostro export assieme alla produzione di elicotteri, navi da crociera, fregate militari, barche di lusso, elettrodomestici, tecnologia aerospaziale, automobili, elettronica…”. E si fa tutto con l’acciaio. “In condizioni normali si potrebbe pensare: ‘Poco male, perdiamo l’Ilva ma l’acciaio lo compriamo all’estero”, dice Paolo Baratta, economista, ministro delle partecipazioni statali nel governo Amato e poi ministro del commercio Estero nel governo Ciampi. “Fino a che ragionavamo in termini di grandi mercati aperti, la risposta era: ‘Sì, l’acciaio si può anche comprare dall’estero’. Ma ora che si minacciano e si applicano dazi, uno comincia a ragionare anche diversamente”. Spiega allora il professor Altomonte: “Quando l’America mette i dazi sull’acciaio perché ritiene che non si debba assolutamente dipendere dalle forniture estere, sta in pratica dicendo al mondo che la produzione di acciaio è per loro un settore strategico nazionale. La stessa cosa, a maggior ragione, dovrebbe valere per l’Italia. Perché in rapporto alla capacità produttiva assoluta, la nostra quota di industria manifatturiera è persino superiore al rapporto che gli stati uniti hanno tra manifattura e pil”

 

 

In pratica la dipendenza del sistema economico italiano dall’acciaio è in proporzione molto superiore rispetto al sistema americano. Anzi. “Non c’è dubbio alcuno che la siderurgia sia alla base del nostro sistema industriale”, ripete Urso. “E che l’allarme sia grave lo dimostra anche il fatto che Giuseppe Conte sia stato ricevuto dal Quirinale per parlare dell’Ilva. Ci saranno e già ci sono conseguenze. E non solo in tema di approvvigionamento dell’acciaio. Questa storia di Ilva è l’ultimo esempio: abbiamo un problema a garantire gli investimenti dall’estero. Gli investitori, non solo Mittal ma anche Lufthansa nel caso Alitalia, scappano. Perché c’è una schizofrenia nelle regole. Siamo la seconda potenza industriale d’Europa e in questi giorni rischiamo di essere scavalcati dalla Francia. E se perdiamo la siderurgia complessa, sono guai. Non ci meritiamo ministri incompetenti come Di Maio”. Ma lui esporta le arance. “Sa quanti container di arance sono arrivati in Cina? Ne sono arrivati due in un mese”, dice il prof. Altomonte. “E mentre noi eravamo impegnati a esportare questi due container, i francesi vendevano alla Cina aeroplani per 16 miliardi”. Potremmo vendere 16 miliardi di arance. “Sì, ci vogliono all’incirca quattro o cinque secoli”.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.