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Il complotto ArcelorMittal è una balla per coprire il fallimento patriottico

Luciano Capone

La teoria per cui “gli indiani” hanno comprato per chiudere non ha senso. Sull’Ilva c’è stato un autocomplotto italiano

Roma. “Il patriottismo è l’ultimo rifugio dei furfanti”, diceva il letterato inglese Samuel Johnson riferendosi al falso nazionalismo dei governanti dell’epoca. Nel precipitare della crisi dell’Ilva di Taranto la falsa coscienza patriottista domina la narrazione, cercando di riunire tutta la nazione (popolo e stato) come un sol uomo contro l’usurpatore straniero, in questo caso indiano, in una singolare guerra di liberazione: non per spingere l’invasore fuori dai sacri confini italiani ma per costringerlo a restarci. Per poter alimentare questa retorica sciovinista c’è bisogno di una narrazione, che riunisca tutti contro lo straniero e di conseguenza consenta di definire chiunque la pensi diversamente come collaborazionista, venduto o comunque anti-italiano. E la narrazione che alimenta questi sentimenti non può stare nel framework di una grave crisi industriale che si trascina da anni, tra problemi economici e ambientali, ma deve stare in quello di una cospirazione contro l’Italia studiata a tavolino.

 

La teoria del complotto è, in sintesi, questa: ArcelorMittal non voleva investire nell’Ilva per rilanciarla, ma intendeva comprare lo stabilimento di Taranto – la più grande acciaieria d’Europa – innanzitutto per non farla finire in mano ai concorrenti (al fine di mantenere il suo potere monopolistico); poi per rubare i clienti dell’Ilva (allo scopo di rafforzare le sue quote di mercato); e, alla fine, chiudere lo stabilimento lasciando la città senza occupazione e senza ambientalizzazione. Questo diabolico piano, che ora sarebbe alle sue battute finali, viene portato a termine usando l’abolizione dello scudo penale come pretesto per non rispettare il contratto di acquisto che prevedeva investimenti per oltre 4 miliardi (1,8 miliardi per l’acquisto, 1,25 miliardi per il piano industriale e 1,15 miliardi per il piano ambientale). Perché questa teoria del complotto non sta in piedi?

 

Quanto alla concorrenza, c’è da dire che non c’era la fila per rilevare l’Ilva. Inizialmente alla gara pubblica europea ArcelorMittal era l’unica partecipante, tanto che l’altra cordata concorrente è stata praticamente costruita a tavolino con due soci finanziari che non conoscono il mercato (Cdp e Del Vecchio) e un partner industriale come l’indiano Jindal che, per dimensioni e capacità, non è di certo uno dei principali rivali di ArcelorMittal. Quanto al potere monopolistico più volte evocato della leader mondiale dell’acciaio, bisogna ricordare che per acquisire l’Ilva ArcelorMittal è stata costretta dall’Antitrust europeo a (s)vendere per 740 milioni di euro sei stabilimenti a Liberty Steel (Ostrava in Repubblica ceca, Galati in Romania, Skopje in Macedonia, Piombino in Italia, Dudelange in Lussemburgo e Liegi in Belgio). In ogni caso, non c’è nulla di strano a partecipare alle gare per avvantaggiarsi sui concorrenti e acquisire nuovi clienti (in fondo è il motivo per cui tutti concorrono), ma non ha alcun senso acquistare uno stabilimento per svariati miliardi al fine di spegnerlo. Anche perché i clienti non li compri né li rapisci e con la chiusura della fabbrica rischi di perderli.

 

Alla fine, ciò che più non torna all’interno di questo racconto complottista è la volontà dei sedicenti patrioti di “costringere” Mittal a restare (nonostante le sue cattive intenzioni), con la considerazione collegata che se andasse via non ci sarebbero alternative alla nazionalizzazione. E tutti quei concorrenti contro cui sarebbe scesa in campo Mittal, che fine hanno fatto? Se fosse vero l’assunto iniziale, non sarebbe necessario costringere ArcelorMittal a restare perché dovrebbe esserci la fila davanti all’Ilva. E invece non c’è nessuno.

 

Ma c’è un punto in questa teoria del complotto che è tanto debole quanto ridicolo: se Mittal può realizzare i suoi loschi propositi senza pagare quanto stabilito dal contratto è solo perché il governo gli ha fornito la scappatoia legale abolendo lo scudo penale. E non è che ArcelorMittal se ne sia rimasta in silenzio, per poi approfittare dell’ingenuo assist della politica. Anzi, a giugno avvisa con un comunicato l’opinione pubblica, i commissari e il governo: se togliete la protezione legale, cambiate le condizioni del contratto e noi ce ne andiamo. Ma i governanti italiani fanno gli indiani e aboliscono lo scudo. Così alla fine la verità è che il “complotto” attribuito agli investitori stranieri lo hanno realizzato i politici autoctoni che ora, di fronte alle nefaste conseguenze delle proprie decisioni incoerenti, la buttano sul patriottismo. L’ultimo rifugio dei furfanti.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali