British Steel cinese avrà lo scudo della Regina
Altro che Ilva. Londra accompagna la sua siderurgia e spedirà acciaio in Europa
Mentre intorno al caso Ilva-ArcelorMittal ed a Taranto il governo e l’intera politica italiana si muovono in maniera caotica, mostrando muscoli di cartapesta e chiedendo, tanto per cambiare “che si muova l’Unione europea” (Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia), la politica inglese pur nel mezzo della Brexit e in piena campagna per le elezioni anticipate del 12 dicembre agisce con pragmatismo e senza sussulti ideologici per risolvere una volta per tutte la crisi di una gloria nazionale, la British Steel. Il governo di Londra sta per avallarne la cessione al produttore cinese Jingye Group, a cominciare dal sito di Scunthorpe, nel Lincolnshire, dove ha sede la più grande e più antica acciaieria, fondata da privati a metà Ottocento, ampliata dopo la prima guerra mondiale, nazionalizzata dai laburisti di Harold Wilson nel 1967 con il British Steel Act, riprivatizzata nel 1988 con un secondo British Steel Act dai conservatori di Margaret Thatcher, finita in bancarotta la scorsa estate dopo una girandola di trasferimenti tra Corus Group, indiani del colosso Tata, il fondo di investimenti britannico Greybull Capital, un finto interessamento del fondo pensionistico turco Oyak. Un pezzo di storia del paese, quando l’industria siderurgica britannica dava lavoro a 100 mila persone e rappresentava oltre un quinto del pil. E un simbolo delle Midlands in crisi e pro Brexit, con Scunthorpe – le cui fornaci furono intitolate alle regine Bess, Anne, Victoria e Mary, cioè sei secoli di storia e quattro dinastie dai Tudor agli Stuart agli Hannover agli Windsor – che negli anni ruggenti occupava 25 mila addetti su 75 mila abitanti.
La campagna elettorale in gran parte centrata su come restituire al Regno Unito un ruolo autonomo nel mondo, e l’attenzione di quasi tutti i partiti agli umori dei brexiteers ostili alla globalizzazione, non hanno impedito al governo di Boris Johnson, che tanto sul “Rule Britannia” quanto sulla Brexit ha edificato la propria politica, di agire senza pregiudizi. Trattando con la potenza simbolo della globalizzazione e della concorrenza al ribasso, la Cina, oltretutto nemica giurata di Donald Trump che ha garantito a BoJo, quando sarà fuori dall’Europa, il rilancio delle “special relationship”, accordi politici e commerciali con gli Stati Uniti. Jingye ha annunciato il preliminare di acquisto di British Steel per 70 milioni di sterline (90 milioni di euro) con 1,2 miliardi di investimenti nei prossimi dieci anni. Mentre Andrea Leadsom, ministro di Jonhson per l’Economia, l’Energia e l’Industria, anche lei brexiteer dichiarata, si è limitata a dirsi “ottimista su tutta l’operazione”. Operazione che secondo il Financial Times prevede un impegno preciso del governo britannico: uno scudo ambientale (“Uk government [is expected] to offer a guarantee to cover environmental risk”) durante il processo di ammodernamento, e 250 milioni di sterline per la conversione a idrogeno delle turbine di alimentazione. Impegni simili a quelli del quale si parla senza costrutto per l’ex Ilva nel tentativo di recuperare i Mittal: i cui legali ieri hanno depositato al Tribunale di Milano il recesso dal contratto di affitto dello stabilimento di Taranto.
A Scunthorpe i dipendenti si sono ridotti a 5 mila, ma Jingye si è impegnata ad aumentare la produzione da 2,5 milioni di tonnellate l’anno a tre milioni, riducendo i costi. La trattativa è stata comunque rapida, ad agosto si guardava ancora alla Turchia, i laburisti chiedevano la seconda statalizzazione e l’Ukip di Nigel Farage la distribuzione di quote ai dipendenti. Una delegazione cinese con il presidente Lin Gapo ha visitato gli impianti nei giorni scorsi e ha riferito di aver trovato buona accoglienza da parte di imprenditori e sindacati. Nessun magistrato del Lincolnshire e nessuna altra corte inglese ha mai disposto sequestri dello stabilimento, di parte di esso né della produzione, come fece nel 2012 con 1,7 milioni di tonnellate già stoccate nel porto di Taranto il procuratore capo Franco Sebastio, che poco dopo andò in pensione, venne chiamato dal neopresidente della Puglia Michele Emiliano in un proprio “consiglio di saggi” e poi si candidò, sconfitto, a sindaco della città. A Taranto è anche esplosa una caldaia, il che ha rilanciato le polemiche sulla “bomba nel cuore della città”. Nel 1975 un incidente molto più grave avvenne anche e Scunthorpe: un carro cisterna ferroviario esplose provocando 11 morti. Ma neppure allora venne sequestrato alcunché.
Certo è che lo sbarco della Cina in Inghilterra porrà ulteriori problemi alla traballante siderurgia europea: sono già a capitale cinese la maggiore acciaieria della Serbia e il trader italo-svizzero Duferco con sede a Lugano. Tutto fuori dai confini Ue. E anche per questo Eurofer, la lobby dei produttori europei, ha chiesto azioni rapide alla commissione di Bruxelles, peraltro a sua volta a bagnomaria. In questa situazione appare ancor più bizzarro il comportamento del governo italiano e del premier Giuseppe Conte, tra finti incontri con i Mittal, cordate fantasma buone per un’intervista, ristatalizzazioni impraticabili; fino alle richieste di aiuto personali ad Angela Merkel. Senza parlare delle spaccature nella maggioranza sullo scudo penale messo, tolto, rimesso. Taranto dovrebbe produrre il doppio di Scunthorpe, 5 milioni di tonnellate. Dovrebbe, perché quest’anno con gli altiforni chiusi o a regime ultraridotto, se ne produrranno meno. A ben vedere gli anglo-cinesi sono già una minaccia diretta, pur con meno della metà dei dipendenti. A chi daranno la colpa stavolta il governo giallorosso e l’ex maggioranza gialloverde? Si potrebbe chiedere a Luigi Di Maio, trait d’union tra questo e quel populismo, che a settembre diceva “In tre giorni ho risolto la questione Ilva; ad altri non erano bastati sette anni”. Oppure andare a lezione a Downing Street.