Veduta su Catania (foto Wikimedia Commons)

Milano e Catania non sono in contrapposizione, possono crescere e avvicinarsi

Francesco Drago*

Come agglomerazione e coesione vanno di pari passo

Nel periodo in cui la cassa del Mezzogiorno ha avuto effetti benefici sulla crescita del meridione – dal 1950 al 1970 – i “poli di sviluppo” rappresentavano un tema centrale. L’idea sottostante era che le forze propulsive della crescita del Mezzogiorno non potessero essere distribuite equamente sul territorio, ma dovessero necessariamente essere concentrate in alcuni poli. Oggi, più che nel passato, le economie di agglomerazione giocano un ruolo fondamentale nel processo di crescita di un paese. La prossimità fisica, la concentrazione di imprese e fattori di produzione in alcuni luoghi, favoriscono la proliferazione di idee e di innovazione. Le economie di agglomerazione fungono da calamita per le imprese che traggono vantaggio dalla vicinanza con le altre e ridisegnano la “nuova geografia del lavoro”, come descritto da Enrico Moretti nel suo celebre libro.

 

Allo stesso tempo, la nuova geografia del lavoro pone questioni importanti sulla coesione territoriale di un paese. In Italia, il basso tasso di natalità e lo spopolamento delle aree marginali, in particolare lungo la dorsale appenninica e nel meridione, accentuano le differenze tra aree interne e aree urbane, ponendo problemi di uguaglianza rispetto a fondamentali diritti di cittadinanza. La giustificazione di politiche fiscali dirette alle aree interne dovrebbe risiedere nella necessità di assicurare uguali diritti di cittadinanza e di frenare il processo di abbandono di ampi territori al monopolio della criminalità organizzata e di desertificazione. Tuttavia, alla luce dell’importanza delle economie di agglomerazione, risulta difficile giustificare politiche fiscali generalizzate dirette alle aree interne al fine di promuovere lo sviluppo dell’intero paese, come sembrano voler credere gli ultimi due governi (si vedano i riferimenti alle aree interne nelle Nadef). 

 

 

Seguendo il dibattito politico economico, anche chi ha a cuore la diminuzione dei divari regionali dovrebbe temere l’enfasi sulle economie di agglomerazione. Alcuni studiosi, infatti, sostengono che per aumentare il tasso di crescita dell’economia dovremmo indirizzare le risorse sui settori e sulle aree più produttive. In definitiva, le politiche per far crescere la nostra economia dovrebbero essere quelle che fanno aumentare la distanza tra Milano e Catania: questa visione ha una portata politica enorme, perché implica che interventi volti a ridurre i divari deprimono la crescita. In realtà, la presenza di economie di agglomerazione non implica necessariamente alcuna particolare politica fiscale diretta ad alcuni settori industriali o verso le regioni più produttive, perché la desiderabilità di un intervento rispetto a un altro deriva dalla capacità di mobilitare, non solo più risorse produttive, ma anche fattori di produzione inutilizzati. Ad esempio, una politica volta a incrementare la domanda di lavoro diretta a giovani disoccupati può essere più efficace (per la crescita) di una che defiscalizza i settori più innovativi e questa circostanza può verificarsi precisamente nelle aree più arretrate, dove la disoccupazione e lo “spazio per crescere” sono maggiori. Gli economisti di Harvard Austin, Glaeser e Summers, ad esempio, presentano evidenza empirica che, sulla base di questa osservazione, giustifica politiche placed-based indirizzate verso aree depresse negli Stati Uniti.  Se conoscessimo con più precisione la natura degli effetti di agglomerazione in Italia, politiche place-based dirette ad alcuni settori e regioni arretrate, con una forte impronta di concentrazione, non solo sarebbero giustificate dall’esistenza di economie di agglomerazione, ma ridurrebbero la distanza tra Milano e Catania favorendo al contempo la crescita dell’intero paese. 

 

Non c’è motivo di temere la concentrazione economica. Anzi, ci sono diversi motivi per favorirla. E’ una scommessa culturale che dovrebbe giocare un governo che ha a cuore sia la riduzione dei divari regionali sia la crescita del paese. Non solo redistribuire ricchezza tra aree urbane e aree interne (di una torta purtroppo sempre più piccola), ma soprattutto favorire quei poli di sviluppo che devono essere necessariamente diversi da quelli ideati dalla Cassa del Mezzogiorno 70 anni fa. E’ anacronistico decidere gli agglomerati a tavolino, ma si possono creare le condizioni perché prosperino, anche e soprattutto nel Sud. La scommessa culturale si vince promuovendo i buoni esempi di realtà industriali meridionali (ce ne sono diversi) per ripristinare la fiducia verso le aree più arretrate, adottando le best practice diquelle più sviluppate, evitando gli errori del passato (un passato disastroso ben descritto dal pamphlet “Morire di Aiuti” di Antonio Accetturo e Guido de Blasio), adeguando le infrastrutture materiali e immateriali e investendo massicciamente nell’istruzione per colmare divari ormai inaccettabili. La scommessa si vince concentrando le risorse su pochi ambiziosi progetti nella ricerca e nella formazione. E’ una scommessa anche politica: sarebbe più facile destinare risorse aggiuntive a tutte le università delle regioni più arretrate, anziché investire sull’istituzione di un Istituto di Tecnologia sul modello di quello di Genova. E’ una scommessa quasi impossibile da vincere, ma che tuttavia è necessario giocare.

 

*economista, Università di Catania

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