L'Italia cerca casa
Dal piano di Fanfani all’appartamento del ministro Trenta, una storia di sprechi, clientele e iniquità. L’intoccabile feticcio
Il 29 luglio 1948 in una infuocata giornata politica e atmosferica, prende la parola alla Camera dei deputati l’onorevole professor Epicarmo Corbino. Chi era costui, chiederanno i più giovani lettori. Una domanda che nessuno avrebbe fatto a quel tempo. Era infatti un liberale che più liberista non si può, economista accademico nato in Sicilia, ad Augusta, nel 1890; già firmatario del manifesto degli intellettuali antifascisti del 1925, aveva attraversato il regime in apnea, nel 1943 era entrato nel governo Badoglio e nel 1945 venne nominato ministro del Tesoro nel primo esecutivo guidato da Alcide De Gasperi che di lui diceva: “Se non ci fosse bisognerebbe inventarlo”. Anche Palmiro Togliatti, il quale aveva un debole per i liberali tanto da schierarsi più volte con loro durante l’assemblea costituente, in nome di una chiara lotta di classe contro le utopie cogestionarie della sinistra Dc e dei socialisti lombardiani, lo apprezzava al punto da seguire con attenzione la brillante retorica del politico-economista che non lesinava humor e dottrina con i suoi interventi in Parlamento. Così fece il capo del Partito comunista italiano, anche quel 29 luglio in cui il deputato liberale incrociò la spada con Amintore Fanfani per combattere il già allora mitico progetto per le abitazioni popolari conosciuto come piano Ina-casa. “Ho l’impressione o signori – esordì Corbino – che le uniche case che si costruiranno con il piano Fanfani saranno quelle che dovranno accogliere gli uffici amministrativi chiamati a raccogliere i fondi con cui si dovrebbero costruire le case”. Non fu proprio così, anche se ancor oggi torreggiano i palazzi di quegli uffici. Tuttavia Corbino aveva ragione a denunciare un apparato politico-burocratico che crescerà nel tempo come una superfetazione mostruosa, e aprirà la strada a una storia di sprechi, clientele, iniquità, dagli alloggi concessi senza averne i requisiti agli appartamenti occupati illegalmente, fino ai privilegi più smaccati – insomma fino alla ex ministro Elisabetta Trenta, che non voleva mollare la casa ottenuta dal ministero della Difesa (141 euro di affitto per 180 metri quadrati), passando per una miriade di casi simili fino a quello della madre della senatrice Paola Taverna. La politica della casa è un sonno della razionalità economica e sociale che ha generato mostri.
Sin dal duello Corbino-Fanfani, la politica della casa è un sonno della razionalità economica e sociale che ha generato mostri
L’80 per cento degli italiani vive in un alloggio in proprietà, ma tutti cercano casa sulle orme di Totò. Il film, diretto da Mario Monicelli, è una satira paradossale ed esce, ironia della storia, nel 1949, lo stesso anno in cui il Parlamento approva il piano Ina-casa, un intervento ispirato non dal comico napoletano, ma dal piano Beveridge britannico. Ma anche dal pensiero di John Maynard Keynes che Fanfani, allora ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, apprezzava al punto da irridere gli economisti italiani che non sapevano nemmeno pronunciare il nome del grande inglese. Il piano era sostenuto dalla possibilità di riscattare nel tempo l’alloggio, pagandolo come una casa in affitto (agevolato), con ipoteca sull’immobile da estinguere a rate. Vennero realizzati due milioni di appartamenti per 355 mila vani; il meccanismo fu la trovata che riusciva a coniugare intervento statale e proprietà privata, così che lo stesso Fanfani poteva replicare a Corbino che non c’era nulla di socialista nel suo progetto: “Intesi il piano casa – proclamò il leader democristiano qualche anno dopo in Parlamento – come un vincolo rinnovato di solidarietà, un invito ai senza tetto a riconciliarsi con la società che li attende operosi, controllori e attori della sua vita e del suo progresso”. Inizialmente la legge prevedeva una durata settennale, ma successivamente venne prorogata di ulteriori sette anni fino al 1963. All’impresa parteciparono tutti i maggiori architetti dell’epoca tra i quali Mario Ridolfi, Carlo Aymonino, Ettore Sottsass, Italo Insolera, ispirati dal razionalismo della Bauhaus e di Le Courbusier. Unica voce fuori dal coro quella di Gio Ponti, il quale protestava contro quei parallelepipedi senz’anima che oggi sono il simbolo delle periferie degradate dove cova la rivolta populista, e che allora erano i quartieri modello del nuovo stile neorealista italiano ed europeo: il quartiere Tiburtino a Roma (capigruppo Ridolfi e Quaroni) o il quartiere Spine Bianche a Matera (Michele Valori e Carlo Aymonino) o il Villaggio del Sole a Vicenza; mentre col Villaggio San Marco a Mestre si tentò di ricreare in terra ferma lo stile veneziano.
Gli storici sottolineano che le assegnazioni vennero realizzate seguendo le regole, senza imbrogli né corruzione. Il consenso era ampio, non serviva il mercato delle vacche. Eppure le mani della speculazione e del voto di scambio (come oggi viene chiamato) stavano per calare sulle città. La pellicola di Franco Rosi “Le mani sulla città” è del 1963, quando era cominciato il centrosinistra che portava con sé, insieme alla nazionalizzazione dell’energia elettrica e alla riforme sociali, anche il sistema della spartizione. Non solo a Napoli come nel film, ma in tutte le città italiane che stavano affrontando la prima grande urbanizzazione. Per una ironia della storia (che forse non è proprio una coincidenza) in quello stesso anno finisce il piano Fanfani e comincia l’epoca della Gescal, acronimo di Gestione case per i lavoratori, cioè il fondo destinato a finanziare la costruzione e l’assegnazione degli alloggi popolari. E con la Gescal arriva il nuovo corso. L’idea era di costruire gli alloggi ricorrendo ai fondi versati dagli stessi lavoratori. Un principio di per sé mutualistico o cooperativo. Il finanziamento derivava dai prelievi effettuati direttamente sulle retribuzioni di dipendenti pubblici e privati, comprensive di contingenza, pari allo 0,35 per cento, mentre le imprese dovevano versare lo 0,70 per cento. L’ente viene soppresso nel 1973, ma il contributo continuerà a essere versato praticamente fino al 1992.
L’assenza di piani regolatori divenne la norma. Al suo posto s’impose un’altra logica, quella dello scambio di favori
La Gescal aveva due organismi dirigenti: il consiglio d’amministrazione, con ampi poteri, e il “comitato centrale”. Il primo era dominato dai democristiani (presidente Aldo Quartulli e direttore generale Mauro Bubbico, capogruppo Dc al consiglio comunale di Roma), il comitato centrale da esponenti socialisti. Fino al 1994 il fondo, che allora contava su 21 mila miliardi di lire complessivi (circa 12 miliardi di euro), era stato utilizzato solo per due terzi dalle regioni, in favore di Iacp e comuni. Nel 1995 la Corte costituzionale stabilì che “gli storni dei fondi sono incostituzionali” e dovevano essere rivisti anche i criteri di assegnazione degli alloggi da parte dei comuni visto il “legame inscindibile tra contributori e beneficiari”. A pagare erano i lavoratori dipendenti, però ne beneficiavano tutti i cittadini. La Gescal in fondo applicava lo stesso meccanismo sperimentato per le imposte dirette: l’Irpef per la stragrande maggioranza grava sul lavoro dipendente grazie alle trattenute alla fonte, ma il ricavato serve a finanziare servizi ed erogazioni monetarie che vanno anche ai lavoratori autonomi o a chi non paga. E’ uno scambio ineguale, forse il più ineguale degli scambi che contribuisce a delegittimare il sistema fiscale e a sancire la sua iniquità.
All’impresa parteciparono tutti i maggiori architetti dell’epoca, tranne Gio Ponti, che protestava contro quei parallelepipedi senz’anima
Un pilastro della casa per il popolo è stato l’Istituto Autonomo Case Popolari (in sigla Iacp) nato per promuovere, realizzare e gestire edilizia pubblica finalizzata all’assegnazione di abitazioni ai meno abbienti, soprattutto in locazione a canoni calmierati. E’ figlio dell’Istituto Case Popolari creato non da Mussolini – come si sente dire dai nostalgici del regime – ma nel 1903 per volontà del deputato Luigi Luzzatti, esponente attivo della comunità ebraica, giurista e deputato della Destra storica (lo stesso che aveva fondato la Banca popolare di Milano), nominato ministro del Tesoro nel secondo governo Giolitti. In origine, l’Icp doveva realizzare edilizia economica e popolare nell’area urbana di Roma, il cui allora sindaco, il principe Prospero Colonna, aveva caldeggiato e ispirato la legge definendola “interpretazione fedele dei sentimenti delle classi diseredate dalla fortuna”. I quartieri romani di San Saba e della Garbatella, il primo cominciato nel 1907 il secondo nel 1920, sono due esempi ancor oggi di notevole valore architettonico, altrettanto non si può dire per i casermoni successivi. L’Icp aveva ampia autonomia e si finanziava sul mercato creditizio, l’Iacp del Dopoguerra, invece, con tutte le sue emanazioni territoriali, venne alimentato dallo stato e diventò strumento di gestione ed esecuzione per conto della politica nazionale e locale, operando quasi sempre in perdita. Un patrimonio costruito in economia richiede immediati e frequenti interventi, ai quali fanno fronte gli Iacp ricorrendo ai propri mezzi: devono provvedere alla manutenzione ordinaria e straordinaria di alloggi costruiti mezzo secolo fa, utilizzando risorse annue spesso inferiori all’1 per cento del costo di costruzione, senza altri finanziamenti. Nel 1971 l’istituto diventa un ente pubblico non economico, unico soggetto incaricato dell’edilizia pubblica e popolare. L’inflazione a cavallo degli anni ’80 fa esplodere i costi ai quali non corrisponde un aumento dei canoni, una forbice che non verrà mai chiusa così che anche il sistema Iacp dà il suo contributo all’esplodere del debito. Nel ’93, in piena onda di privatizzazioni, diventa possibile vendere una parte consistente del patrimonio pubblico. Ciò rimette in moto il mercato dell’edilizia residenziale soprattutto a livello locale, ancor più dopo che la legge Bassanini introduce nel 1998 il principio della sussidiarietà e della devoluzione, che significa passare anche questa patata bollente alle regioni. A questo punto la storia si frantuma in microstorie locali, tuttavia la casa per il popolo non migliora.
Dieci anni dopo arriva un nuovo piano e il lessico cambia: non più case popolari, ma social housing. Nel 2009 nasce il il Fia. Il Fondo investimenti per l’abitare (Fia) gestito dalla Cassa depositi e prestiti, insieme al ministero delle Infrastrutture, alcuni gruppi bancari, assicurativi e casse di previdenza privata, con una dotazione iniziale di circa 2 miliardi a cui si è sommato il co-investimento di circa 1 miliardo di euro da parte di fondi locali. In base ai dati 2018 della Fondazione housing sociale, sono in campo 255 progetti, di cui circa la metà è stata portata a termine. Ma la strada è lunga e intanto esplode il sistema tradizionale.
Solo a Milano ci sarebbe bisogno di un miliardo e 200 milioni, secondo alcune stime, per risanare il patrimonio immobiliare pubblico.
Nel 1993, in piena ondata di privatizzazioni, diventa possibile vendere una parte consistente del patrimonio pubblico
Abbiamo lasciato il primo centrosinistra appeso alla Gescal. In realtà in quel periodo si apre anche la stagione della 167, degli espropri e dei Peep (i Piani di edilizia popolare). Le legge varata nel 1962 consentiva di espropriare per pubblica utilità terreni da destinare a case economiche e popolari secondo piani di zona (era l’epoca della programmazione con tutta la sua mitologia). I lotti edificabili potevano essere assegnati a comuni, enti, cooperative a costi contenuti anche se dislocati in aree meno periferiche di quelle dove sorgevano i palazzi Ina-casa. Il finanziamento aveva un percorso circolare: i comuni, ottenendo i terreni a basso prezzo e rivendendoli (una volta urbanizzati) agli assegnatari pubblici e privati, avrebbero potuto ricavare fondi da reinvestire in acquisto di altre aree e in costruzione di servizi. Alfiere della nuova urbanistica fu Fiorentino Sullo, avellinese, esponente della sinistra democristiana, bersaglio di una “maschia” campagna del settimanale di estrema destra Il Borghese, che lo tacciò di omosessualità. L’edilizia, anche quella pubblica, si sottrasse di fatto a ogni razionalità programmatoria. L’assenza di piani regolatori divenne la norma non solo al sud o nelle città mal gestite. Al suo posto s’impose un’altra logica, quella dello scambio di favori. E qui comincia lo tsunami: l’occupazione delle case pubbliche.
La signora Graziella Bartolucci, madre della senatrice Paola Taverna, prima di essere sfrattata viveva dal 1994 in un appartamento Ater (Azienda territoriale dell’edilizia residenziale) godendo di un affitto agevolato (in media per questo tipo di alloggio si pagano 100-150 euro al mese) cui non aveva diritto anche perché possedeva diversi immobili, uno nel comune di Roma. Ma lei, che ha resistito finché il suo ricorso non è stato bocciato nel gennaio di quest’anno, non era certo l’unica. La Regione Lazio ha condotto un’indagine insieme al Cerved e ha scoperto che il 12 per cento di chi vive in un casa assegnata dalla Regione possiede una seconda casa: sono 5.700 persone su 48 mila appartamenti. E non c’è solo Roma, naturalmente. Una sentenza della Cassazione del 2014 svela il meccanismo perverso. L’occasione è il ricorso di una donna condannata per aver occupato abusivamente un alloggio della Italposte a Lamezia Terme. L’argomento in sua difesa era che l’occupazione avvenne in stato di necessità e comunque dopo aveva regolarizzato la sua posizione. La Cassazione invece ha stabilito che il reato è immediato, si verifica cioè nel momento stesso in cui viene preso possesso dell’immobile, quanto allo stato di necessità non annulla il reato, sentenze successive hanno precisato meglio che cosa effettivamente si intende (per esempio reale indigenza, stato di gravidanza, invalidità).
C’è di mezzo la burocrazia, c’è la sfiducia nel modo in cui sono formate le graduatorie, c’è la penuria di alloggi popolari, c’è il clientelismo che diventa corruzione. La risposta a tutto questo è l’abusivismo, comportamento di massa tollerato, protetto, talvolta incoraggiato, sempre condonato. Il farsi o prendersi una casa abusivamente, così come il non pagare le tasse, è la supplenza italiana allo stato debole? Forse, anche se ha il sapore di una scusa liberatoria. Fatto sta che la casa è un feticcio intoccabile. Che cosa si intende in realtà quando si parla di radici, se non il tetto sulla testa, i quattro muri che la generazione dei baby boomer hanno costruito e lasceranno a figli e nipoti? La marginalità dell’affitto s’accompagna alla debolezza del mercato, di quel libero gioco della domanda e dell’offerta che tanto piaceva a Corbino e tanto disturba gli italiani.