Brandizziamo da Tiffany
La gioielleria simbolo d’America diventa francese. Ora i diamanti sono i migliori amici dell’industria del lusso
L’acquisto di Tiffany da parte della super conglomerata del lusso Lvmh annunciata ieri non è solo l’ennesimo colpo francese su un marchio celebre (stavolta americano, non italiano). Certo l’orgoglio americano soffrirà: cambia proprietà così l’azienda fondata nel 1837 a New York da Charles Lewis Tiffany, che divenne abbastanza presto “the king of diamonds”, gioco di parole che significa anche Re di quadri.
Inventò il “Tiffany setting”, ancor oggi l’anello di fidanzamento “top”, con un disegno mai passato di moda, un diamante montato su un anello in cui sembra che galleggi sospeso. L’affare vale quasi quindici miliardi di dollari, ci sono state trattative, ma nemmeno troppo defatiganti. Certo Lvmh, fondata dal geniale Bernard Arnault (e sostenuta da un sistema paese non interessato a decrescite felici), raduna marchi i più disparati, gli alcolici di Moët & Chandon e Veuve Clicquot, la moda con Dior, Fendi, Vuitton. E poi i gioielli di Bulgari, comprati recentemente. Dunque non ci sarebbe niente di strano se Arnault, forte di un fatturato di quasi 50 miliardi annui, volesse investire su un altro marchio simbolo. Il fatto è che l’acquisizione segna semmai il crescente interesse dei marchi del lusso verso un settore considerato sottovalutato, spiegano gli analisti. Da una parte si prevede una crescita forte: secondo il rapporto globale sul settore della gioielleria di McKinsey, quanto si spende oggi nel mondo per i gioielli è destinato a crescere a ritmo del 5-6 per cento annuo. Passando dai 148 miliardi di oggi ai 250 del 2020. Sono i soliti nuovi affluenti esotici e asiatici a guidare la nuova corsa al brillocco. Ma non è solo questo. Il business dei gioielli per secoli è stato sempre uguale: marchi famosi soprattutto a livello nazionale, o regionale, tutti si comprava dal gioielliere di fiducia, magari da generazioni, e gli unici brand davvero famosi in tutto il mondo sono solo due, Cartier e Tiffany, appunto.
Adesso l’avvento delle nuove masse affluenti bramose di carati e non interessate all’understatement cambia tutto. Secondo McKinsey, assisteremo a tre fenomeni: una internazionalizzazione dei brand, molte fusioni e acquisizioni, una crescita dei marchi, e “fast fashion”. I nuovi ricchi globali vorranno infatti marchi noti a ogni latitudine, e in ogni aeroporto. Basta coi gioielli della nonna, quelli magari preziosissimi che si portano da generazioni. No, tutti vogliono il gioiello brandizzato, che si capisca subito che è costoso e che è di un certo marchio. Secondo McKinsey, i prossimi anni saranno dominati non tanto dai vecchi gloriosi marchi del settore, ma da brand come Dior, Hermès e Louis Vuitton, che si butteranno in questa nuova cuccagna introducendo o espandendo linee di monili accanto alle tradizionali attività. Verrà meno, anche, la separazione netta tra i gioielloni veri e quelli “degli stilisti” (di materie nobili i primi, e normalmente placcati e con pietre di cristallo i secondi). Tutto si mischia.
Il valore si sta spostando dall’intrinseco alla sua rappresentazione, e il gioiello sta diventando insomma un vestito. Così, ecco le collaborazioni, con H&M – come ti sbagli – che sette anni fa lanciò una linea di gioielli disegnata dalla leggendaria Anna Dello Russo (prezzi tra i 20 e i 300 euro: fast fashion insomma, tutto si mischia). Insomma, niente più certezze (ma poi McKinsey non lo dice, ma si teme che molta crescita arriverà anche dalla tragica moda dei gioielli da uomo). Lontani i tempi in cui l’unico monile ammesso era un bell’orologio, possibilmente di un antenato, o al massimo la chevallière, se di casato non tarocco, adesso si assiste alla prolificazione di bracciali e catene e anelli, che ormai allignano anche su notai e scienziati i più seriosi.