L'Italia ferma
Perché dare la colpa all’Europa? I veri freni alla crescita oggi sono nanismo d’impresa e riforme a metà. Uno studio
Roma. Dopo tre mesi l’occupazione a ottobre è tornata a crescere: più 46 mila unità; mentre la disoccupazione è scesa di due decimali, al 9,7 per cento. I dati Istat di ieri continuano però a restituire l’immagine di un paese immobile, come è anche testimoniato dal micro-rialzo del pil nel terzo trimestre, 0,1 per cento. I numeri degli occupati dicono innanzitutto che le riforme cardine gialloverdi, quota 100, reddito di cittadinanza e decreto dignità, non hanno prodotto nulla come occupazione: i 46 mila di ottobre sono infatti partite Iva e contratti a termine. Il pil parla invece ancora di un’Italia ferma e ultima nella Ue, a conferma delle graduatorie della detestata Commissione di Bruxelles.
Ma ecco altri numeri, forniti stavolta da un dossier della Cna (Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa) Umbria, che fotografano il sistema imprenditoriale di quella che siamo abituati a vedere come seconda manifattura d’Europa, anche se questa potenza manifatturiera non produce risultati conseguenti su crescita, produttività e occupazione. L’Italia dunque, rileva la Cna, ha 4,397 milioni di imprese, una ogni 13 abitanti. Un record, se non fosse che 2,8 milioni, il 65 per cento, sono imprese senza dipendenti: liberi professionisti, autonomi, società a responsabilità limitata. Questo nanismo è noto da decenni, molto tempo fa gli studi del Censis e di Nomisma pensavano anche che la micro-imprenditorialità avrebbe agito da contrappeso all’industria tradizionale destinata a consolidarsi e ridimensionarsi, specie quella pubblica. Non è stato così. Se due imprese attive su tre non hanno dipendenti si deve anche alla scarsissima apertura al mercato.
Solo l’uno per cento è rappresentato da società per azioni, e ovviamente una minima parte è quotata; e perfino tra le spa il numero di addetti è inferiore a quello delle srl. La politica quando ha provato a incoraggiare la crescita dimensionale è stata criticata: basta pensare alla riforma di Matteo Renzi per indurre banche e cooperative a trasformarsi in spa e quotarsi. E La Lega e il centrodestra hanno dalla loro parte i dati della pressione fiscale, che invece sembrano continuare a non interessare alla sinistra, ai sindacati, al Pd. Le imprese versano ogni anno 72 miliardi di tasse, 27 dei quali a carico di autonomi e liberi professionisti. Per paradosso, nonostante che il massimo di pressione sulle imprese sia stato nel 2012 con il governo Monti (64,5), è invece aumentato nel 2019 il total tax rate, cioè la tassazione complessiva sulle imprese: al 59,7 per cento, lo 0,7 in più. La stessa riduzione Irap operata da Renzi ha prodotto benefici sulle aziende con più dipendenti. Il risultato, calcola la Cna, è che un’impresa individuale artigiana a contabilità ordinaria che opera negli impianti ha un carico fiscale e contributivo pari al 66,91 per cento; un’azienda artigiana del 65,4; una srl manifatturiera del 59,8. La tentazione dell’evasione o dell’immersione è forte, anche se condannabile. La stima dell’economia sommersa è pari al 12,1 per cento del pil, non molto più della Spagna (11,2) ma quasi il doppio della Germania (6,8) e un bel po’ più della Francia (8,3). La percentuale tiene conto delle attività criminali propriamente dette, che dovrebbero generare 20 miliardi di sommerso. Gli altri 192 miliardi da dove vengono? Per il 51 per cento da sottodichiarazioni e per il 41 da lavoro irregolare, tutte con trend in aumento. Qui fanno la parte del leone commercio, trasporto, servizi e ristorazione, il cui sommerso stimato in 80 miliardi di euro è il 41,7 per cento del totale. Chi evade lamenta che a fronte di una pressione fiscale quinta in Europa (dietro a Francia, Belgio, Svezia e Austria) abbiamo servizi pessimi, specie della Pubblica amministrazione.
Che sia o meno un alibi, le graduatorie sull’efficienza pubblica pongono l’Italia all’ultimo posto dell’Europa occidentale, con un punteggio del World economic forum di 4,5 su 100, rispetto a 77,1 dell’Olanda ma anche al 66,7 della Francia e al 59,6 della Spagna. Un gap di 30 punti può paralizzare un paese. Accanto a questo c’è la dinamica dei prestiti: tra 2011 e 2018, e nonostante il Quantitative easing della Bce, si sono ridotti del 12 per cento colpendo però solo le imprese: meno 24 per cento, pari a 240 miliardi che mancano all’appello. Mentre alle famiglie sono andati 31 miliardi in più, il che spiega perché i depositi siano aumentati di ben il 33 per cento. Un caso limite di credit crunch in un paese nel quale abbonda la ricchezza privata, a dispetto della retorica pauperistica. La Cna misura anche il ritardo dei pagamenti dei debiti della Pa. Qui siamo ultimi in Europa, con una consistenza pari al 2,9 per cento del pil. Il doppio della Francia, il quadruplo della Spagna. Inoltre, la differenza tra entrate e uscite pubbliche ha raggiunto nel 2018 38,5 miliardi e la dinamica comprende una spesa pensionistica di 269 miliardi con uno squilibrio di 33,8 miliardi. I freni alla crescita dell’Italia sono questi, ben visibili. Dare la colpa all’Europa o alla Germania è un bluff.