Il preridotto con il gas per salvare l'Ilva. Appunti per il governo
Quello di Taranto può diventare uno stabilimento modello per la siderurgia europea. Ecco come
Al direttore - Mi chiedi che idea mi sono fatto della questione Ilva sulla base delle informazioni acquisite nella scorsa legislatura, quando presiedevo la commissione Industria del Senato. Rispondo così: penso ancora che l’Ilva possa diventare, assieme all’austriaca Voestalpine, l’azienda modello della siderurgia europea; che si possa evitare, insomma, il solito salvataggio che non salva e dare inizio, invece, a una nuova storia.
Per dire come il rispetto dell’ambiente possa trasformarsi da vincolo in opportunità, servono due premesse. La prima: l’Italia manifatturiera, che consuma 11 milioni di tonnellate di acciai piani l’anno, subirebbe danni pesanti dalla scomparsa del suo grande fornitore a ciclo integrale. All’unisono con il partito anti industriale della chiusura, taluni liberisti avevano a suo tempo consigliato di smantellare lo stabilimento di Taranto: l’acciaio è una commodity, basterà comprarlo in Brasile o altrove nel mondo. Senonché l’industria meccanica ha bisogno di qualità, flessibilità, tempi, certezze logistiche e condizioni di fornitura, che le importazioni da sole, senza un’alternativa domestica, non possono sempre garantire.
Seconda premessa: l’economia europea sta avviando processi di decarbonizzazione a tappeto e l’opinione pubblica tende ad abbassare le emissioni accettabili di diossina, ossidi di zolfo e polveri sottili. Un orientamento che, più prima che poi, inciderà sul marketing dei prodotti finali: a una lavatrice o a un’automobile fatte con lamiere “verdi” verrà attribuito un maggior valore.
In questa sede non è il caso di commentare il piano industriale di ArcelorMittal né le polemiche sullo scudo penale. E’ in corso un negoziato tra la multinazionale, il governo e i sindacati per disinnescare la richiesta di recesso avanzata dalla stessa multinazionale. Vedremo. Nel mentre può essere utile ragionare di industria, partendo dal piano Bondi del 2014 e dalle elaborazioni che un anno dopo avevamo fatto riservatamente in Senato con i protagonisti più accreditati.
Adesso l’Ilva può finalmente fare pace con la città di Taranto. E può farlo senza tagliare la capacità produttiva, ma anzi ampliandola fino a 8, o meglio a 10 milioni di tonnellate all’anno per riconfermarsi il più grande produttore di laminati piani a ciclo integrale posto al centro del Mediterraneo. La dimensione produttiva, unica vera tutela per i posti di lavoro, non può dipendere dalla congiuntura della domanda siderurgica, che si affronta con gli ammortizzatori sociali, ma dal posizionamento prospettico dell’impresa. Del resto, l’Italia ha già smantellato negli ultimi anni acciaierie per quasi 7 milioni di tonnellate, senza marcare – come avrebbe forse dovuto – il suo contributo alla riduzione dell’offerta europea di acciaio. Sento dire (ma non ci credo) che al tavolo di trattativa sarebbe stata portata l’idea di eliminare l’Afo 5, l’altoforno più grande d’Europa, che da solo può colare 3,8 milioni di tonnellate. Oggi è fermo per “fine campagna”, ma non esiste un siderurgico degno di fede che non ne sostenga la riapertura, pena una fatale perdita di produttività. D’altra parte, il destino del piccolo Afo 2, oggetto di contenzioso con la magistratura locale, è già segnato: la sua vita utile non durerà comunque più di 12 mesi.
L’Ilva di Taranto può dunque marciare a ciclo integrale con l’Afo 5 e con l’Afo 4, che è stato oggetto del più recente rifacimento e ha una capacità produttiva di 1,8 milioni di tonnellate. Avrebbe senso inoltre installare gradualmente due forni elettrici da 2 milioni di tonnellate ciascuno. Ma la chiave di volta sta nell’alimentazione di questi impianti. E’ chiaro che, se i due altiforni continuassero a usare soltanto il carbone cokerizzato per fondere il minerale, l’impatto ambientale non migliorerebbe in modo strutturale. Se poi i forni elettrici fossero alimentati a rottame, si creerebbero sui prezzi di questa materia prima tensioni tali da scatenare la rivolta della siderurgia del nord, da tempo alle prese con la crescente scarsità della medesima.
La soluzione sta nell’utilizzo del minerale di ferro preridotto con il gas grazie alla tecnologia detenuta da Danieli e Techint. Il preridotto potrebbe essere usato per alimentare almeno in parte l’Afo 5 e l’Afo 4 e totalmente o quasi i forni elettrici, adeguatamente preparati. Il preridotto potrebbe essere importato per i 2-3 anni necessari a costruire i moduli per produrre il preridotto per cedere caldo all’adiacente acciaieria dell’Ilva e freddo alla siderurgia del nord, dove il cremonese Arvedi e il friulano Pittini già ne fanno un uso importante. Taranto, grazie anche al porto, diventerebbe l’hub del preridotto per l’Italia e forse anche qualcosa di più, magari affidandolo a una società consortile fatta dall’Ilva, dai siderurgici privati interessati ad avere un calmiere del rottame e, perché no, dalla stessa Cassa depositi e prestiti. In ogni caso, la fabbrica pugliese potrebbe ridimensionare drasticamente il numero delle cokerie e chiudere uno dei due impianti di agglomerazione, le principali fonti di inquinamento. L’Ilva potrebbe così ripresentarsi alla città, alle istituzioni, alla magistratura con le carte in regola. E potrebbe pure chiedere i certificati bianchi per il partito energetico. Avranno la forza i Mittal padre e figlio di fare un passo che finora hanno temuto ma che nel 2019 potrebbe apparire meno rischioso, data l’abbondanza di gas nel mondo e i prezzi tendenziali della CO2? Un passo che costituirebbe un banco di prova del Green New Deal della Commissione Ue.
La soluzione del preridotto non è una novità. La prospettò per primo Enrico Bondi, inascoltato dai più, fermi sulle posizioni della siderurgia tradizionale, la quale additava nel prezzo del gas l’ostacolo insormontabile. In realtà, l’Eni avrebbe potuto fornire il gas a prezzi accettabili senza perderci. Lo verificai nell’autunno del 2015. E nei prossimi anni Venti la fornitura del gas potrebbe avvenire a condizioni ancora più adatte per fornitore e cliente. Certo, in tal modo Taranto si legherebbe non solo, come tutti gli altri europei, al ciclo della ghisa, ma anche a quello del gas. Una deviazione dai profili di rischio usuali alla quale si potrebbe porre rimedio con i derivati e con altro.
Certo è che il tentativo di vendere l’Ilva lasciando le scelte industriali per intero al compratore, in genere logico, non sta dando in questo caso i risultati attesi. Serve dunque un’idea di politica industriale pragmatica per l’intera siderurgia italiana attorno alla quale costruire gli assetti azionari, nei quali potrebbe trovare un senso anche il contributo dello stato, di Intesa San Paolo e delle altre banche creditrici.