La buona finanza, nel segno dell'apertura
La versione verde e sostenibile del capitalismo, con nuove figure. La trasformazione del modello di impresa, ma alcuni conflitti restano irrisolti. Parla Innocenzo Cipolletta, presidente di Assonime
Roma. Il fondo sovrano della Norvegia, tra i più grandi e importanti al mondo, ha deciso di fare solo “investimenti sostenibili”; anche la compagnia Scottish Widows, storica icona della finanza di massa, ha cambiato le sue priorità; mentre Bnp-Paribas, la prima banca francese, vuole concentrare i prestiti su chi lascia il vecchio paradigma per inoltrarsi nei sentieri del nuovo mondo Dvr: digitale, verde e responsabile. Insomma, le vedove scozzesi, i pescatori norvegesi e i banchieri parigini stanno trasformando il capitalismo. Proteo muta forma ancora un volta ed è il denaro a guidare la danza. La tanto demonizzata finanza svolge una funzione progressiva. L’innovazione si sposta in alto anche rispetto alla sfera della produzione.
“È un altro dei grandi mutamenti in corso”, sottolinea in un colloquio con il Foglio l’economista Innocenzo Cipolletta, presidente di Assonime, l’associazione italiana delle società per azioni. Va di pari passo con le trasformazioni in corso nel governo delle imprese, anzi, ancor più, nella loro stessa ragion d’essere. “Dal prossimo anno, accanto al bilancio ordinario, le società dovranno presentare un bilancio di sostenibilità”, spiega Cipolletta. “Molto spesso si tratta di adempimenti formali che non vanno al di là di una funzione comunicativa, un abbellimento se vogliamo, ma rappresenta comunque un passo avanti, superando il paradigma finora dominante secondo il quale l’obiettivo dell’impresa è di aumentare soltanto il valore degli azionisti”.
Il comitato italiano per la corporate governance ha organizzato ieri e l’altro ieri presso la Borsa di Milano la sua conferenza annuale per fare il punto sulle trasformazioni in corso. Non si torna più indietro, sono ormai balzati al centro della scena gli altri soggetti dell’universo imprenditoriale: i consumatori, i lavoratori, i fornitori, il contesto socio-economico e ambientale nel quale operano i produttori fino alla politica. Dunque, gli stakeholders oltre agli shareholders. In Francia la Loi Pacte dello scorso aprile ha modificato il codice civile stabilendo che “la società è gestita nell’ambito dell’interesse sociale”. Nel Regno Unito già dal 2006 è stato introdotto un Companies Act. Negli Stati Uniti in agosto la Business Roundtable ha emendato la sua vecchia regola a favore degli stakeholders. In Italia, invece, prevale ancora l’interesse degli azionisti. Non tutto fila liscio, anzi molto spesso ci troviamo di fronte a veri e propri conflitti. E le resistenze vengono proprio dagli stakeholders. Si pensi al contrasto tra produzione e ambiente, o tra difesa dell’occupazione e innovazione tecnologica, per non parlare della “transizione verde” che rimette in discussione equilibri consolidati (esempio tipico l’industria alimentare). L’impatto forse più vasto lo vedremo nell’industria dell’auto: il passaggio al motore elettrico (scommessa ad alto rischio) avrà un effetto sconvolgente sui fornitori. Come mediare questi contrasti di fondo? Secondo Cipolletta è importante avere in mente le priorità. Chi produce beni di consumo, ad esempio, non può non guardare innanzitutto al consumatore. Nelle riconversioni industriali, la continuità aziendale può diventare il punto di incontro tra azionisti e lavoratori.
Non c’è una ricetta valida sempre e per tutti, si tratta di trovare le soluzioni ottimali e qui entra in campo la governance, il rapporto tra manager e azionisti, la composizione dei consigli di amministrazione, la rappresentanza dei diversi soggetti e, un aspetto che sta a cuore all’Assonime, la funzione degli amministratori indipendenti. Le grandi imprese italiane non sono indietro rispetto alle concorrenti europee nell’applicare il codice di autodisciplina, il che vuol dire bilanci certificati e migliori standard internazionali, anzi in molti casi stanno meglio di quelle tedesche, tranne per quel riguarda gli amministratori indipendenti che hanno spesso una funzione accessoria tanto che sono mal pagati. Invece, occorre considerarlo un lavoro vero e proprio attirando i migliori professionisti.
Nell’Unione europea è aperto un dibattito che dovrebbe sfociare, dopo le direttive sull’informazione e sui diritti degli azionisti, in una revisione del diritto societario. Assonime ha cominciato uno studio approfondito che terminerà tra un anno. Eppure tutto questo convergere verso un modello di impresa aperta entra in contraddizione con la fuga verso Amsterdam (si pensi a Fca o a Mediaset). L’Olanda sta diventando il Delaware dell’Europa grazie non ai vantaggi fiscali, ma ai maggiori poteri consentiti alla proprietà. Utilizzando azioni di diverso tipo e altri magheggi, è possibile difendersi da scalate ostili, cioè rendere l’impresa meno contendibile, aumentando il rischio di posizioni e pratiche oligopolistiche. Cipolletta ammette che esiste un conflitto non risolto tra esigenze dell’impresa e regole del mercato, tuttavia proprio la necessità di puntare su risultati non più a breve, ma a medio-lungo termine, con quel che comporta in termini di investimenti e capitale di rischio, spezza una lancia a favore della continuità anche a costo di ridurre la contendibilità, ovviamente se si tratta di aziende ben gestite e non sull’orlo del collasso.
Siamo solo agli inizi della grande trasformazione, ai posteri l’ardua sentenza sui risultati. Ma siamo ancora prigionieri di una dimensione tutta ideologica che alimenta l’ondata reazionaria. Joseph Stiglitz è passato dall’economia all’escatologia e scrive sulla “morte del neoliberismo e il ritorno della storia”. Larry Summers, tra nostalgia e profezia, da anni ha aperto una discussione sulla “stagnazione secolare” (rispolverata dagli anni 30) che assomiglia ai dibattiti teologici della tarda scolastica. Dani Rodrik spera in una “globalizzazione intelligente”. Martin Wolf condanna il “capitalismo truccato che danneggia la democrazia”. Nessuno ha saputo calarsi dentro i processi reali e anche i migliori cervelli sono diventati mosche cocchiere della reazione nazional-populista.