Lorenzo Fioramonti (foto LaPresse)

Frottole e petrolio

Carlo Stagnaro

Le castronerie di Fioramonti che sproloquia su Eni. Ci sarebbe da ridere, se non fosse che è ministro

Roma. Il ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, dice che l’Eni dovrebbe abbandonare l’oil & gas – settore nel quale opera fin dal 1926, quando nacque come Agip – per dedicarsi alla “riconversione totale di tutti gli asset produttivi”. Anzi, “nel 2025 il petrolio dovrà essere un centesimo delle attività di Eni” perché “il petrolio che ha in pancia prima o poi non sarà più una risorsa, ma un costo”. Via libera, allora, a “rinnovabili, l’idrogeno, le nuove frontiere della decarbonizzazione, il carbon capture and… ehm… fuel… come si chiama scusi? Carbon capture and use [sic], che è quello che fanno le grandi compagnie che vengono dal fossile che si rendono conto che quello è un mercato morto”. (Si chiama carbon capture and utilization, ed è una tecnologia per rendere neutrali, dal punto di vista delle emissioni di carbonio, i processi che si basano su fonti fossili: pertanto, non serve a rimpiazzare gli idrocarburi ma a renderne sostenibile l’utilizzo).

 

Se Fioramonti non fosse un autorevole rappresentante del governo e del Movimento 5 stelle, ci sarebbe solo da ridere. Invece, è stupefacente la leggerezza con cui egli, da un lato, si pronunci (a Borse aperte) sul destino di un’impresa quotata e, dall’altro, detti le strategie aziendali di un colosso da circa 80 miliardi di fatturato. Secondo la stessa logica, Fca dovrebbe abbandonare l’automotive per fare biciclette ed Enel darsi alla produzione di dinamo e all’allevamento di criceti per metterle in moto. In un paese normale, Fioramonti avrebbe ricevuto almeno quattro telefonate di fuoco: dal ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, che – attraverso Cassa depositi e prestiti – è il principale azionista dell’Eni; dal presidente della Consob, Paolo Savona, tenuto a garantire il buon funzionamento dei mercati e a impedirne il turbamento anche attraverso dichiarazioni improvvide; dal titolare dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, il quale avrebbe rivendicato la titolarità della politica industriale; e, infine, dal premier, Giuseppe Conte, che avrebbe dovuto ricordare a Fioramonti che dal responsabile di Scuola e Università, per giunta sotto legge di Bilancio, non ci si aspetta che abbia tempo libero per pontificare su questioni che esulano clamorosamente dal suo portafoglio. Se l’andamento del titolo Eni ha risentito solo limitatamente delle parole del ministro è probabilmente perché nessuno lo prende ormai più sul serio, e questo – sempre in un paese normale – avrebbe dovuto cagionargli una quinta telefonata, quella del capo politico del partito in cui milita. Invece, il telefono è rimasto presumibilmente muto e le reazioni politiche si contano sulle dita di una mano: un paio di rappresentanti dell’opposizione (Benedetta Fiorini di Forza Italia e Fabio Rampelli di Fratelli d’Italia) e, dalla maggioranza, una garbata puntualizzazione dal viceministro allo Sviluppo economico, Stefano Buffagni.

 

La bufala della fine del petrolio

 

Ora, per comprendere l’enormità delle parole di Fioramonti, basta dare un’occhiata al bilancio dell’Eni. Nel 2018 ha prodotto un utile operativo di circa 10 miliardi, pressoché integralmente riconducibili all’upstream petrolifero. Ha un capitale investito netto di circa 59 miliardi di euro, di cui 50 relativi alle attività di esplorazione e produzione di oil & gas. Le riserve certe – oltre 7 miliardi di barili di petrolio equivalente – hanno una vita residua stimata, agli attuali livelli produttivi, di 10,6 anni e un tasso di rimpiazzo organico attorno al 100 per cento. Nella loro freddezza i dati ci parlano di una realtà forte, competitiva e attenta al futuro. Forse è vero che quello petrolifero è un business in declino, ma la notizia della sua morte è grandemente esagerata: secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, la domanda di petrolio aumenterà dell’8 per cento nei prossimi 20 anni nello scenario business as usual, e persino nello scenario più aggressivo non scenderà al di sotto dei 70 milioni di barili al giorno (circa un terzo in meno di oggi). In compenso, la domanda di gas si troverà in un range tra più 36,6 e meno 2,5 per cento. Insomma, l’industria si farà più competitiva, anche per la sovrabbondanza di risorse, ma difficilmente si estinguerà. 

 

Non è la prima volta che Fioramonti si interessa all’Eni: ad aprile 2019, quando era sottosegretario nel governo gialloverde, suscitò l’ilarità del settore twittando che “nell’èra dello sviluppo sostenibile, non può esistere un ente nazionale per gli idrocarburi”. L’Eni non è più un “ente” dal 1992, quando è diventata società per azioni e il suo brand ha perso il significato di acronimo. Sarebbe un po’ come scandalizzarsi che la rete telefonica fissa sia in mano alla Società idroelettrica piemontese (la Sip, che nel 1985 divenne Società italiana per l’esercizio telefonico, e cambiò definitivamente nome in Telecom Italia solo nel 1994). Lo stesso Fioramonti, articolando la sua riflessione, ha aggiunto: “Finora nessuno nel governo italiano ha mai detto una cosa del genere”. Il suo subconscio avrebbe dovuto spingerlo a fare il passo successivo, con Quelo: la risposta è dentro di te, però è sbagliata.

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