Pesi ed equilibri. Chi ha vinto la partita a scacchi tra Fca e Peugeot
Italiani e francesi puntano su Carlos Tavares come Marchionne del futuro. Cosa concedono gli Elkann. Il dossier dei sindacati
Milano. Stavolta sembra proprio che l’accordo del secolo si farà. I tre cugini Peugeot, ancora oggi soci di riferimento della società francese assieme allo stato e ai cinesi di Dongfeng, hanno approvato senza esitazioni il matrimonio con Exor, la finanziaria controllata dall’altra famiglia storica dell’auto europea. Non è una sorpresa visti i rapporti storici tra le due dinastie e in particolare la lunga frequentazione tra John Elkann e Robert Peugeot che capeggia uno dei rami di una famiglia turbolenta. Ma quasi un miracolo a giudicare da una lunga serie di strappi e di rivalità tra lo stesso Robert e i cugini Thierry e Jean-Philippe. “Storia passata” ha liquidato secco uno dei collaboratori di Robert. Anzi, occorre fare presto perché i problemi, alla vigilia dell’accordo raggiunto dalle delegazioni di Fiat Chrysler e di Psa dopo un mese abbondante di lavoro degli avvocati, non impediscano la nascita del quarto gruppo mondiale dell’auto, frutto di una fusione alla pari sulla base di queste cifre: 50 miliardi di patrimonio, 170 di giro d’affari, 8,7 milioni vetture vendute attraverso i marchi francesi e quelli italo-americani che vanno da Alfa a Jeep e Ram.
Ma anche un’appendice british, Vauxhall, e quella ben più rilevante di Opel, rimessa a nuovo dalla cura di Carlos Tavares. E’ lui, il portoghese volante che ama gareggiare nei rally al fianco della moglie, il jolly su cui puntano gli azionisti. Sia quelli di Peugeot, che gli hanno dato carta bianca, timorosi di perderlo, sia John Elkann, che si è così assicurato l’unico possibile erede di Sergio Marchionne. Non è mai stata in discussione nel corso della trattativa la sua leadership in consiglio: 5 membri a testa tra Psa e Fiat Chrysler, il voto decisivo a Tavares, con un mandato di cinque anni.
E dopo? Per paradosso le discussioni si sono concentrate sulla governance del 2025. E hanno prevalso i francesi, forti del maggior valore di mercato del gruppo transalpino, assai più avanti nello sviluppo delle vetture elettriche e delle emissioni di C02. Non è stato meno complicato venire a capo degli assetti azionari. Per evitare il disco rosso delle autorità Usa, decise a non permettere lo sbarco in Jeep e Ram, sarà necessario ridimensionare nel gruppo francese la quota di Dongfeng, oggi il 12,23 per cento (stessa dei Peugeot e dello stato francese). L’azienda cinese dovrà scendere sotto il 5, senza aver diritto a un posto in consiglio. Meglio se ancora più sotto per far spazio a Peugeot cui toccherà il diritto a comprare, entro sette anni, una quota della nuova società, pareggiando così la partecipazione di Agnelli/Exor che, dopo la fusione, avrà il 14,7 per cento scarso del gruppo. Non finiscono i problemi di una vigilia trafficata.
Il mondo finanziario vuole capire come Elkann intenda proteggere i soci dai siluri in arrivo da GM (che chiede risarcimenti miliardari per la presunta corruzione del sindacato Uwa a suo danno) o quelli non meno pericolosi dell’Agenzia delle Entrate. Più in generale gli stakeholders si stanno interrogando sul futuro del gruppo alle prese con una congiuntura incerta sul fronte delle vendite, che richiede grossi investimenti in sviluppo. E le preoccupazioni crescono se si guarda al versante italiano. E’ vero che gli impianti Fca sono i più competitivi, ma a fronte di questa considerazione c’è il basso utilizzo della capacità. Difficile credere che i sindacati francesi, di fronte allo scenario dei tagli futuri, accettino ridimensionamenti senza analoghi sacrifici in Italia. Fca, inoltre, arriva al traguardo in condizioni tirate: il debutto della 500 elettrica, previsto per la primavera, è slittato nella seconda parte dell’anno. E a proposito di batterie, il ministro dell’Economia francese è in pressing su Peugeot per l’avvio dei lavori per un impianto da 2.500 posti con un investimento da 2,2 miliardi alimentato in parte da fondi pubblici. E l’Italia? Ci siamo anche noi nel progetto dell’Airbus delle batterie. Almeno in teoria, perché i 570 milioni necessari per ora non ci sono.