Rimpallo di vigilanti
La Popolare di Bari e l’assenza di pricing delle azioni di cui né Consob né Bankitalia si sono accorte in tempo
Milano. Se c’è una cosa che aveva messo tutti d’accordo al termine della rumorosa e chissà quanto utile ultima commissione di inchiesta sui crac bancari è che bisogna rafforzare la cooperazione tra Consob e Banca d’Italia. E il caso Popolare di Bari ci fa ritornare al punto di partenza. Come tutte le aziende a conduzione famigliare che si rispettino, anche l’istituto di credito di Bari ha le sue peculiarità. Dai provvedimenti della Consob che ne ha multato per 1,9 milioni di euro i vertici nel 2018 e soprattutto dalla sentenze della Corte di appello che a settembre hanno rigettato il ricorso della Popolare, emerge infatti che la più grande banca del Mezzogiorno d’Italia – come oggi si tiene con orgoglio a definirla – non aveva un meccanismo di interno di pricing, cioè di determinazione del prezzo delle proprie azioni. E che, pur appoggiandosi a un consulente esterno quale Deloitte per ottenere una perizia sui diversi metodi utilizzabili, prezzava i titoli in maniera discrezionale, senza considerare la perizia da lei stessa commissionata e senza nemmeno comunicarlo ai propri soci. Dal 2014 al 2016, cioè nel triennio in cui ha emesso titoli e obbligazioni per mezzo miliardo di euro per coprire il “salvataggio” di banca Tercas e per adeguarsi ai nuovi requisiti di patrimonializzazione delle banche, la Popolare di Bari ha semplicemente applicato uno sconto al prezzo deliberato in assemblea. E ha utilizzato la consulenza esterna solo per determinare il sovrapprezzo d’offerta destinato ai nuovi soci, ma scegliendo di anno in anno e “immotivatamente” una fascia differente della forchetta proposta dal consulente: prima alta, poi bassa, poi media. Il tutto “con la supina adesione del collegio sindacale e l’inerzia delle funzioni di controllo interno”, che in teoria erano state oggetto dei controlli degli anni precedenti. E qui contano le date, perché i prezzi delle azioni vengono determinati in tre consigli di amministrazione rispettivamente nella riunione del 9 aprile 2014, nel febbraio del 2015 e a inizio aprile del 2016.
Il primo quindi avviene ad appena cinque mesi dalla riunione del 23 ottobre in cui l’istituto di credito ottiene il via libera, previa sostituzione “di facciata” del responsabile dell’internal audit, all’acquisizione di Tercas e l’ultimo si tiene due mesi prima l’inizio di un’ulteriore ispezione da parte di Banca d’Italia durata dal giugno al novembre del 2016.
Banca d’Italia, interrogata su eventuali accertamenti sul nodo del prezzo delle azioni precedenti agli aumenti di capitale, si limita a rimandare alla ricostruzione pubblicata sul suo sito e a sottolineare che “altre questioni restano soggette al segreto d’ufficio”. Ma in quella ricostruzione la stessa Vigilanza rivendica da una parte di aver svolto accertamenti ispettivi nel 2010, 2011-2012 e 2013 sull’istituto e dall’altro di aver sollecitato lo sviluppo del gruppo bancario tramite una ricapitalizzazione pluriennale. La Consob, a uguale domanda – ci sono stati controlli sul prezzo delle azioni antecedenti al 2017? – non risponde nemmeno. Quello che sappiamo dalla sentenza della Corte d’appello è che l’autorità che vigila sui mercati (e sui prodotti che su quei mercati vengono venduti) viene a conoscenza del contenuto delle perizie Deloitte solo quando Bankitalia – siamo a marzo 2017 – invia i risultati della sua ispezione del 2016 e che questa volta il faldone è più ampio di quello del 2014.
A leggere la ricostruzione della Vigilanza le indagini degli anni precedenti a Tercas erano concentrate sull’adeguatezza dei controlli interni, ma evidentemente non quelli collegati alla vendita di titoli, alla trasparenza nei confronti della base societaria, alla raccolta di capitale. Eppure già la comunicazione Consob del 2009 domandava l’adozione di strumenti di determinazione di fair value dei titoli, con precisi criteri e l’appoggio a consulenti esterni e metteva in guardia da un’ondata di emissioni obbligazionarie delle banche in risposta alla crisi. Tanto che paradossalmente la stessa Popolare per difendersi in tribunale – ora ha presentato anche ricorso al Tar – si appella ai ritardi con cui l’authority è intervenuta rispetto alla data di emissione dei titoli. La sua argomentazione è stata rigettata, proprio in nome del fatto che Consob è stata messa a conoscenza solo nel 2017 dell’ispezione della altra autorità. E in questa girandola, la domanda che ancora non ha risposta è perché sia stata non solo autorizzata un’acquisizione ma anche sollecitato un piano di aumenti di capitale a un istituto che fino a pochi mesi prima era sotto ispezioni per carenze dei controlli interni, sospendendo quelli esterni. Aumenti di capitale promossi, ma senza esami: un 18 politico, si direbbe.
Ma a dare risposta verrà sicuramente la prossima commissione di inchiesta, quando raccomanderà perentoriamente quanto già raccomandato nella scorsa commissione di inchiesta: tra gli istituti di Vigilanza, signori, ci sia maggiore cooperazione.