Bari è la prova provata della necessità della riforma delle popolari
La banca pugliese si è strenuamente opposta alla trasformazione in spa prevista dalla riforma Renzi. E questo è il risultato
Il crack preannunciato ma sempre sottovalutato della Banca Popolare di Bari, una specie di Popolare di Vicenza del sud, dimostra una volta di più quanto fosse necessaria e urgente la riforma delle più grandi popolari (in totale dieci banche) decisa dal governo Renzi nel 2015. Quello di Bari, infatti, è solo l’ultimo di una serie di dissesti che hanno colpito vari istituti, principalmente le tre popolari non quotate, cioè: Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca e, appunto, Banca Popolare di Bari. Tre banche nelle quali i vertici e non il mercato hanno sempre potuto decidere unilateralmente il valore delle azioni, gonfiandone in modo scandaloso i prezzi anche col supporto di perizie compiacenti di esperti. Il risultato è che tutte queste tre banche alla fine sono saltate in aria, con danni spaventosi per migliaia di azionisti e investitori.
Nei casi della Vicenza e di Veneto Banca la riforma Renzi non ha potuto impedire il tracollo delle due banche, ormai giunto a uno stadio troppo avanzato. Ma ha evitato che potessero aggiungersi ulteriori danni a quelli già provocati ai risparmiatori e ai soci azionisti dei due istituti a causa delle cattive gestioni degli anni precedenti. Facciamo un esempio pratico per capirci. Provate a immaginare che cosa sarebbe potuto succedere se, in assenza della riforma, la Popolare di Vicenza avesse per ipotesi potuto fare un ulteriore aumento di capitale con tutti i vizi annessi e connessi già visti in passato (tra cui le famose operazioni “baciate”) al prezzo irrealistico di 60 euro per azione, magari per finanziare il “salvataggio” della Veneto Banca, aggregandosela. Fantascienza? No, i vertici della Popolare di Vicenza avevano effettivamente accarezzato questo sgangherato progetto assolutamente fuori dalla realtà: in pratica, è come immaginare un moribondo che salva un altro moribondo. Se fosse accaduto qualcosa di simile decine di migliaia di risparmiatori avrebbero pagato un ulteriore scotto e l’economia del Veneto sarebbe stata messa a ben più dura prova di quanto già visto.
Oppure, pensiamo a quanto sta avvenendo oggi. Di certo non ci sarebbe stato un crack delle attuali proporzioni della stessa Popolare di Bari se questa banca si fosse trasformata in Spa, come previsto dalla riforma delle popolari. Il che avrebbe fatto sicuramente emergere anzitempo i suoi problemi, che invece sono stati ulteriormente tenuti nascosti sotto il tappeto per anni, a discapito di soci e risparmiatori. Al contrario, dopo la riforma a Bari hanno fatto di tutto per sottrarsi a tale obbligo e persino alcune istituzioni dello stato si sono frapposte alla trasformazione in Spa della Popolare di Bari (e anche della Popolare di Sondrio) nonostante la Corte Costituzionale si fosse chiaramente espressa favorevolmente circa l’oggettiva urgenza della riforma del governo Renzi. E nonostante, in un’audizione alla Camera dei Deputati nel febbraio 2015, il direttore generale di Banca d’Italia Salvatore Rossi avesse giudicato “ragionevole” la soglia minima di 8 miliardi di euro di attivo per delimitare il perimetro delle banche oggetto della riforma.
Chi scrive in passato ha tessuto le lodi del modello originario delle banche popolari e delle banche di credito cooperativo, quel modello mutualistico e vicino alle esigenze di finanziamento delle imprese dei territori e dei distretti industriali che nel Dopoguerra ha sostenuto in modo importante la crescita dell’economia italiana (celebre l’episodio del Banco di San Geminiano e San Prospero, l’unica banca che ebbe il coraggio di finanziare le prime attività di Enzo Ferrari). Quel modello però col tempo ha tradito i propri ideali ed è diventato sempre meno trasparente. In particolare, alcune popolari sono divenute via via sempre più grandi, con logiche finanziarie e operative sempre più distanti dal tradizionale obiettivo di supportare economicamente le piccole e medie imprese dei territori e le comunità locali. In alcuni casi, come avvenuto in particolare per Vicenza, Veneto Banca e Bari, le banche popolari sono diventate dei meri centri di potere finanziario autoreferenziali, spesso banche “di famiglia”, con bilanci opachi e vertici superpagati. Presidenti, amministratori delegati e consiglieri di amministrazione sono divenuti praticamente inamovibili anche a causa del sempre più obsoleto sistema del voto capitario (cioè ogni socio vale un voto), degenerato nel tempo attraverso il ricorso massiccio delle deleghe date dai singoli soci a direttori di filiali o rappresentanti compiacenti vicini ai vertici delle banche (così facilmente rieletti in modo bulgaro a ogni assemblea).
Ma forse niente più dei crudi numeri spiega perché la riforma Renzi delle popolari fosse necessaria, a dispetto delle critiche e degli ostacoli riversati su di essa dal circolo lobbystico-politico-mediatico-burocratico. Infatti, tra il 2011 e il 2018 le dieci maggiori banche popolari hanno avuto perdite lorde cumulate a bilancio per 22,3 miliardi di euro (a cui si aggiungono le ulteriori perdite della Popolare di Bari del 2019 già emerse con la semestrale, pari a un’altra settantina di milioni, e quelle dell’intero anno di cui conosceremo l’esatta entità solo fra qualche mese).
A beneficio dei lettori, ricordiamo qui comparativamente che il caso Etruria, che pure è assurto per ragioni strumentali di bassa politica al rango di protagonista assoluto delle cronache e dei talk show, vale appena il 3 per cento circa delle perdite cumulate delle popolari degli ultimi otto anni. Il vero epicentro del buco delle banche popolari (con circa 15 miliardi di perdite lorde cumulate dal 2011 al 2018, pari a oltre i due terzi delle perdite totali delle popolari) è stato il Veneto, non la Toscana… Nel solo 2014, anno precedente la riforma, le dieci maggiori popolari fecero registrare perdite lorde per 4,9 miliardi (di cui 3,7 miliardi delle tre popolari venete contro i 126 milioni della piccola Etruria).
Secondo i dati di Ricerche e Studi di Mediobanca, nel 2014, anno antecedente la riforma Renzi, le svalutazioni di crediti di tutte le banche popolari italiane (incluse le piccole) arrivarono al 63 per cento dei ricavi (contro un valore del 43 per cento delle banche spa). Mentre la percentuale delle perdite correnti sui ricavi delle popolari fu nello stesso anno del 31 per cento (contro l’11 per cento delle banche spa).
Oltre alle perdite a bilancio registrate nei vari anni dalle popolari, va poi considerata la distruzione di valore azionario che ha interessato questi istituti. In primo luogo vi è stato l’azzeramento del valore fittizio delle azioni delle tre popolari non quotate Vicenza, Veneto Banca e Bari, con danni per gli investitori per diversi miliardi di euro. Inoltre, va considerato che anche le popolari quotate hanno visto erodere sensibilmente i corsi delle loro azioni. Infatti, se consideriamo il 2008, anno precedente la grande crisi mondiale, nei sei anni successivi fino al 2014 la perdita di valore delle azioni è stata del 91 per cento per la Banca Popolare di Milano, dell’88 per cento per il Banco Popolare post acquisizione della famigerata Banca Popolare Italiana e dell’85 per cento per il Credito Valtellinese. Un po’ meno forti sono stati gli arretramenti dei corsi della Banca Popolare dell’Emilia-Romagna (oggi Bper Banca) con meno 44 per cento, di Banca Popolare di Sondrio con meno 53 per cento e di Ubi Banca con meno 58 per cento. Il tutto a fronte di un calo ben più contenuto del 40 per cento delle azioni di una banca spa benchmark come Intesa Sanpaolo.
In conclusione, è indubbio che la riforma delle popolari (invocata già da Ciampi e Draghi ma mai attuata) fosse indispensabile e urgente. Ed è altrettanto chiaro che se tale riforma non fosse stata colpevolmente frenata, la stessa Popolare di Bari avrebbe potuto forse evitare un tracollo così drammatico che costerà miliardi ai risparmiatori e ai contribuenti.