La repubblica dei salvataggi
Dalle banche che traballano all’Alitalia che non decolla, dal disastro Ilva alla Whirlpool che fugge. I governi mettono soldi ma il mercato non si può sfidare in eterno. Perché l’economia non si salva per via giudiziaria
Correva l’anno 1982 e il governo guidato dal repubblicano Giovanni Spadolini introdusse un provvedimento chiamato “manette agli evasori”. Non piacque granché ad Antonio Pedone, docente di Scienza delle finanze, tra i maggiori conoscitori della politica e dei sistemi fiscali: tre anni prima aveva scritto un libro dal titolo efficacissimo, “Evasori e tartassati”, mettendo in relazione diretta la giungla tributaria e la corsa a non pagare le imposte. Pedone era tra i professori più vicini a Giuliano Amato, “il dottor sottile” nominato segretario del Consiglio dei ministri da Bettino Craxi nel 1983. Il primo governo presieduto da un socialista non mancò di proclamare che la lotta all’evasione era una priorità e s’inventò il redditometro. In realtà, a dieci anni dalla riforma Visentini (con l’Iva, l’Ice, l’Irpef) c’era bisogno di una revisione o quanto meno di un bel tagliando. Ma le manette agli evasori era una scorciatoia più efficace politicamente.
Ogni governo dal fiato corto ha sempre imboccato scorciatoie. La coalizione rossogialla ha scelto la strada delle manette e dei salvataggi
Il popolo delle Popolari scende in piazza, anche a Bari. I soci hanno comprato quei pezzi di carta (non quotati in Borsa, perché la banca non si è trasformata in società per azioni nonostante la legge), quando valevano sette euro, poi sono scesi a due e oggi stanno a zero tondo tondo. Sono settantamila i pugliesi e vogliono essere risarciti, come i veneti o i toscani. Qualcuno deve coprire le perdite. Chi? Secondo il grillino Daniele Pesco che presiede la commissione bilancio del Senato, con la logica del mercato non si poteva rimediare alla crisi della banca, nessuno ci avrebbe messo un euro, sapendo che non sarebbe mai stato rimborsato. Invece è lecito non rimborsare i prestiti allo stato, cioè ai contribuenti. Oltre novecento milioni di euro vengono girati al Mediocredito centrale per prendersi la Popolare di Bari. Si aggiungono ai 24 miliardi finora spesi per le altre banche entrate in crisi. Poi c’è un nuovo prestito, altri 400 milioni di euro, per l’Alitalia, che va sommato ai 9 miliardi gettati dai finestrini e senza paracadute negli anni scorsi. Non sappiamo a quanto potrebbe ammontare un intervento pubblico diretto nell’Ilva, ma si tratterebbe in ogni caso di miliardi su miliardi. E dove mettiamo tutto il resto: 140 tavoli al ministero dello Sviluppo economico che ormai è un ministero delle crisi industriali? Che si fa per la Whirlpool, si assumono tutti i lavoratori al comune di Napoli o alla Cassa depositi e prestiti che a quel punto sarebbe meglio chiamare Cassa mutua e sovvenzioni?
La crisi della banca sale di tono già tre anni fa, quando si capisce che un quarto dei crediti concessi non rientrerà mai
Torniamo a Bari. La crisi della banca sale di tono come un crescendo rossiniano quando già tre anni fa si capisce che un quarto dei crediti concessi non rientrerà mai. Per stare in piedi bisogna aumentare il capitale, ma come? Ecco allora la frenetica vendita di obbligazioni di ogni genere e grado, distribuite ad amici e parenti, eppure non basta. Così si ricorre al belletto, manipolando i conti con destrezza da super ragionieri. La Banca d’Italia suona il campanello d’allarme. Troppo poco, troppo tardi? Si vedrà, comunque la vigilanza avverte che la banca traballa. Fin qui il copione è lo stesso recitato a Vicenza come ad Arezzo e in tutti gli altri bubboni scoppiati in questi anni. C’è il caso Tercas, cioè la Cassa di risparmio di Teramo acquistata con il via libera di via Nazionale nell’ottobre 2014, con l’intervento del Fondo di tutela dei depositi, senza aiuti di stato come ha sentenziato il tribunale della Ue. E’ stata l’ultima goccia? Probabile. Un errore clamoroso? Forse. Ma anche questo fa parte del solito canovaccio. Lo abbiamo già visto a Siena quando il Monte dei Paschi nell’ormai lontano 2007 compra l’Antonveneta pur non avendone le risorse interne. La storia si ripete perché la logica è la stessa: la banca deve diventare troppo grande per fallire, così da far intervenire Pantalone. Tutto torna e ritorna, anche la litania sugli “ignari risparmiatori”, ignari a Vicenza come ad Arezzo, a Siena come a Genova, ad Ancona come a Bari. Un popolo ignaro. Una leggenda, una caricatura, una barzelletta come quella dei leghisti che vogliono abolire il bail in per non rischiare i soldi dei contribuenti mentre il salvataggio dall’interno è stato introdotto proprio per evitare che la crisi delle banche ricada sui contribuenti come con il bail out barese. Se non pagano i soci, gli obbligazionisti, chi con le banche ha operato e spesso intrugliato, paghiamo tutti noi, eppure il Capitano e i suoi palafrenieri raccontano il contrario.
Le crisi bancarie italiane, dal Monte dei Paschi di Siena in poi, hanno coinvolto istituti di credito radicati nella realtà locale, piccole casse di risparmio e soprattutto banche popolari, quelle che avrebbero dovuto trasformarsi in società per azioni non solo per rafforzarsi e ricapitalizzarsi, ma per ripulirsi e cambiare il modo di essere gestite. Le popolari sono state le mucche da mungere per fornire latte e formaggio al clientelismo locale. Hanno irrorato il sistema produttivo? Anche, ma per lo più non lo hanno aiutato a cambiare, a modernizzarsi, di certo non lo hanno rafforzato, semmai sono rimaste vittime delle sue debolezze. E i salvataggi, pubblici o privati, rischiano solo di prolungare l’agonia. Le banche non sono imprese come le altre e vanno salvate, questo è il dogma. Tutte, ogni singola azienda? Bisogna proteggere correntisti e risparmiatori. Ma se a Bari il servizio venisse svolto da un’altra azienda che cosa perderebbero i clienti? Intesa Sanpaolo danneggia forse i veneti mentre la Popolare di Vicenza li aveva arricchiti? Discorsi privi di senso, non senso economico, ma buon senso abbandonato per lisciare il pelo al senso comune nazional-populista che usa il salvataggio pubblico per sostituire con nuove clientele quelle dei vecchi partiti, nuovi cacicchi al posto di quelli del passato.
Le popolari sono state le mucche da mungere per fornire latte e formaggio al clientelismo locale. I fallimenti delle banche per il sud
L’intervento barese ha un solo merito: la trasparenza perché è più che trasparente l’intento politico. Con i cocci della Popolare di Bari il Mediocredito centrale che fa capo al Tesoro attraverso Invitalia, secondo Luigi Di Maio dovrebbe creare una banca d’investimento per il Mezzogiorno. Il processo è lungo e periglioso. Ma guardiamo qualche cifra. I 900 milioni sono così divisi: tra 5 e 600 per coprire le perdite; circa 100 per rimborsare i soci; 300 per pagare gli scivoli a 800 dipendenti (su 3 mila) che perdono il posto, c’è poi da ripulire i crediti marci che ammontano a 3 miliardi. I 900 milioni sono già esauriti quindi dovrebbe intervenire il Fondo interbancario con mezzo miliardo, in cambio diventerebbe azionista minoritario del Mediocredito centrale. Ma non subito perché la banca di stato arriverebbe solo a pulizie fatte, con una nuova dotazione di capitale da parte del Tesoro. Il costo del salvataggio che ammonta già a 1,4 miliardi tra stato e banche, salirebbe ancora. A quel punto la futura banca del sud andrebbe a raccogliere i cocci di altre banchette meridionali che non si reggono in piedi. Ancora salvataggi, ancora denari dei contribuenti e dei risparmiatori che sottoscrivono i titoli di stato per coprire il debito pubblico appesantito dai nuovi oneri. E chi garantisce che questa volta andrà meglio che in passato? Ricorda Giampaolo Galli: “Alla fine degli anni Ottanta, le banche del Sud, tutte pubbliche, erano tecnicamente fallite e sono state salvate, su input della Banca d’Italia di Ciampi, dalle grandi banche del Nord. E a chi vuole la grande banca pubblica d’investimento per il Sud ricordiamo che una volta esistevano banche pubbliche esclusivamente dedicate agli investimenti a medio e lungo termine nel Sud: furono un fallimento colossale. L’Isveimer, ad esempio, fu messo in liquidazione nel 1996 dall’azionista principale, il Banco di Napoli, a sua volta controllato dallo Stato, perché in un solo anno aveva accumulato perdite per 607 miliardi, mangiandosi quasi per intero il patrimonio”.
In verità, la banca per gli investimenti nel Mezzogiorno è una copertura volta a convincere l’Unione europea. Il resto sono chiacchiere che non riescono a coprire la realtà. Come per l’Alitalia. Il decreto con il quale vengono stanziati altri 400 milioni scrive chiaramente che “è destinato a finanziare le indifferibili esigenze gestionali della compagnia e l’esecuzione, da parte dell’organo commissariale, del piano delle iniziative e degli interventi funzionali all’efficientamento della struttura, nonché alla tempestiva definizione del trasferimento dei complessi aziendali, affinché sia assicurata la discontinuità, anche economica, della gestione da parte del soggetto cessionario”. Insomma, non si tratta di prendere tempo, bensì di avviare entro il 31 marzo le procedure che consentono “la discontinuità” e l’intervento di nuovi azionisti. Quali? Sono in ballo ancora le Ferrovie dello Stato (fino a contrordine), c’è Delta (forse), rispunta Air France mentre Lufthansa s’allontana. Voci. Così è se vi pare, ma può darsi che domani sarà diverso. In ogni caso tutti, comprese le Fs, vogliono che il ripulisti sia fatto prima di metterci un euro. Salvatori sì, pagatori no.
Altro che un nuovo Iri. E poi di quale Iri si parla? Quello degli anni ’30 che avrebbe dovuto essere temporaneo, quello del Dopoguerra o l’ospedale delle aziende decotte che ha portato al collasso l’Istituto per la ricostruzione industriale? In ogni caso, bisognerebbe mettere in piedi una strategia, invece di andare avanti con interventi di emergenza clientelari e demagogici. Lo stesso avviene per l’inane inseguimento degli evasori fiscali. L’amministrazione finanziaria ha introdotto controlli basati su metodi statistici pensati per prevenire e reprimere: si tratta di accertamenti costruiti sulle presunzioni, cioè su paragoni tra quanto il contribuente ha dichiarato e quanto, in base a determinati calcoli e medie, il fisco presumeva fosse il suo reddito reale. Dopo le manette e il redditometro sono venuti i coefficienti presuntivi (1989), la minimum tax (1993) e i parametri (1995), fino ad arrivare agli studi di settore (1998). Negli anni più recenti è entrata in campo Equitalia, poi l’Agenzia delle entrate. E’ stato provato tutto e di più con scarsi risultati. Tra ricorsi, patteggiamenti, in efficienza burocratica, lo stato riesce a recuperare in media appena l’11 per cento del dovuto. Manette, manette!
La Guardia di Finanza nel 2018 ha individuato 13.957 evasori, ne ha arrestati 400, nessuno è stato messo in prigione
La Guardia di Finanza nel 2018 ha individuato 13.957 evasori, ne ha arrestati 400, nessuno è stato messo in prigione. Negli anni precedenti è stato ancora peggio: 11.303 denunce nel 2016 con 99 arresti, 12.375 nel 2017 con 226 arresti. La sede Inps a Roma Eur possiede la più grande banca dati anagrafica d’Europa. Quattro piani sotterranei di server, 500 addetti, 100 milioni di codici per gestire 61 milioni di contribuenti e 1,6 milioni di aziende. Un patrimonio che rimane in gran parte sottoutilizzato perché, allo stato attuale, è difficile, talvolta impossibile, incrociarlo con altre banche dati (Agenzia delle Entrate, Guardia di Finanza, Inail). Le mancate entrate fiscali e contributive, secondo le stime, ammontano a 110 miliardi a fronte di una economia sommersa di 211 miliardi pari al 13 per cento del prodotto lordo. L’evasione non tocca solo l’Iva o i redditi parcheggiati all’estero. C’è la resistenza degli enti locali (su poco più di 8.000 Comuni presenti in Italia, infatti, solo 550 hanno collaborato con l’amministrazione finanziaria) e quella di imprenditori e sindacati (60.000 aziende e 100.000 lavoratori hanno usufruito indebitamente dello sgravio contributivo per le assunzioni a tempo indeterminato).
Manette e salvataggi, insomma, coprono l’incapacità di agire seguendo una coerente strategia. Sulle banche si è continuato a ripetere che le crisi sono fenomeni isolati, da affrontare dunque caso per caso. Mentre è noto a tutti che in Italia ci sono troppe banche e banchette, molte delle quali distribuiscono denaro in modo assistenziale se non clientelare, a cominciare proprio da molte popolari. Se di sostegno pubblico c’è bisogno, allora deve servire ad aumentare il capitale, razionalizzare, chiudere gli istituti incapaci di risanarsi. Pier Carlo Padoan aveva proposto una sorta di banca ripulitrice, una bad bank nella quale riversare i crediti marci, non è mai andata avanti non solo per il veto dell’Unione europea, ma per la opposizione delle maggiori aziende creditizie convinte di poter trarre vantaggi da interventi spot. Alla fine la Popolare di Vicenza e Veneto Banca sono state ripulite dal governo con 17 miliardi, prima di venderle per un euro a Intesa Sanpaolo e dopo aver fatto perdere svariati miliardi al sistema bancario intervenuto per salvarle (il fondo Atlante ha perso 3,4 miliardi di euro). La commissione d’inchiesta intende parlare di tutto ciò? Oppure vuole bruciare a piazza Colonna, davanti a Palazzo Chigi, gli untori della peste bancaria e gli eretici mercatisti quelli che se un’azienda non sta in piedi è meglio chiuderla piuttosto che distruggere ricchezza privata e sperperare denaro pubblico? Noi la risposta l’abbiamo, ma basta aspettare pochi giorni per vedere se siamo prevenuti o abbiamo fiutato l’aria che tira.