Come continuare a brindare con il prosecco anche a Londra
La Brexit e l’agroalimentare italiano, una partita a somma negativa. A meno che non si raggiunga un accordo in linea con Bruxelles
Ah il prosecco, che anche in questi Christmas party, forse ultimi pre Brexit, ha spopolato nella City quanto tra i creativi di Ealing nel West e Shoreditch nel North-East londinese, e nei distretti hi-tech di Glasgow e Bristol. E prima ancora nelle feste di laurea per le quali i pub l’hanno ormai affiancato alle pinte di birra. Le bollicine – prosecco e spumante – sono infatti diventate da qualche anno il primo prodotto e il simbolo dell’export agroalimentare dell’Italia nel Regno Unito, scavalcando i tradizionali pomodori in polpa e pelati, panetteria e dolci, formaggi, pasta, prosciutto e caffè. Ma ora che succederà con l’uscita del Regno dall’Unione europea, e tanto più in caso di hard Brexit verso la quale marcia il rafforzato Boris Johnson a meno che la Ue non si impegni in un negoziato a tutto campo entro il 31 dicembre 2020?
“Il trionfo dei brexiteers è stato indiscutibile e non ci sono più dubbi sulla volontà del popolo britannico di uscire dall’Europa” ha scritto sul Sole 24 Ore Raffaele Borriello, direttore generale di Ismea, l’autorità pubblica e indipendente del mercato agricolo e alimentare. “Guardando agli interessi italiani l’atteggiamento può essere bivalente: da un lato si può temere che il buco nel bilancio della Ue, essendo il Regno Unito contributore netto per circa 10 miliardi, finirà per abbattersi soprattutto sulla Pac, la politica agricola comune che l’Italia ha invece interesse a rafforzare; dall’altro esce un partner tradizionalmente nemico della Pac, che l’ha sempre vista come costosa e distorsiva dei mercati, e che ha sempre ostacolato questioni importanti per l’Italia come l’etichettatura dei prodotti e dell’origine”. Ma all’atto pratico la bivalenza non risulterà a somma zero per l’agroalimentare italiano, a meno che non si raggiunga un accordo di soft Brexit sul quale il governo di Roma e Londra, così come Bruxelles, dovranno impegnarsi fin da subito.
Teresa Bellanova, ministro delle Politiche agricole, ha promesso una cabina di regia per la filiera del vino che dovrebbe partire appunto a gennaio anche per conciliare punti di vista italiani non sempre coincidenti. Per esempio Luca Giavi, presidente del consorzio di tutela del prosecco doc (1.200 aziende vinificatrici tra Veneto e Friuli-Venezia Giulia, 2,5 miliardi di valore complessivo), nota che le vendite in Gran Bretagna aumentano del 5 per cento l’anno, “magari perché gli inglesi fanno scorta o meglio perché il prodotto è entrato nelle loro abitudini e continueranno a comprarlo anche dopo, perfino pagandolo qualcosa in più in caso di uscita traumatica”. Tuttavia proprio il Regno Unito rappresenta un terzo di tutto l’export, verso il quale si orientano i tre quarti della produzione di prosecco (gli altri maggiori clienti sono Usa e Germania), il che è un punto di forza ma anche di vulnerabilità se arriveranno i dazi inglesi appena scampati dagli Usa trumpiani. Certo, le bollicine italiane sono talmente entrate nelle abitudini British da aver superato – 336 milioni di euro contro 323 – lo champagne di rigore in “Downton Abbey” e a Buckingham Palace. Però, come ricorda lo stesso Giavi, “i prosecco bar a tre ruote che girano per le strade modaiole vendono spesso bianco frizzante che con il prosecco non ha nulla a che fare, mentre nei supermarket ci sono etichette di Pisecco, magari prodotto nell’Europa dell’est”. Qualcosa di simile al “parmesan” americano o tedesco, che ovviamente trarrebbe forza da una hard Brexit e dall’accordo privilegiato con gli Usa promesso da Donald Trump, o da singoli accordi con i “paesi europei più amici” come ha ipotizzato Boris Johnson.
Le analisi dell’Ismea evidenziano come l’Italia sia oggi leader nell’agroalimentare esportato in Gran Bretagna per vini spumanti, pomodori pelati e in polpa, riso, pasta. L’export di spumanti e prosecchi italiani è aumentato dal 2009 addirittura del 967 per cento, quello di panetteria e pasticceria del 112, compensando ampiamente i lievi cali di pomodori e vini da tavola. Nel complesso le esportazioni di agroalimentare italiano sono aumentate del 32 per cento, anche perché nelle altre produzioni l’Italia figura sempre tra i primi sei fornitori del Regno Unito. Dunque, stima Ismea “sulla base del posizionamento dell’Italia per singolo prodotto la minaccia di un’eventuale sostituzione da parte di paesi terzi non appare immediata. Più articolata la situazione del vino, dove quelli del Nuovo mondo, tra i quali Nuova Zelanda e Australia, membri del Commonwealth, detengono già rilevanti quote di mercato”. Non c’è insomma da brindare né da sottovalutare il fenomeno, anche perché nel frattempo si moltiplicano le tentazioni in seno alla Ue di negoziare singolarmente con la futura Gran Bretagna post Brexit, o in generale di scatenare una concorrenza interna al ribasso. Per esempio la Ue ha appena respinto una richiesta della Germania di non applicare dazi alle nocciole turche, richiesta alla quale l’Italia, concorrente diretto della Turchia, si era opposta assieme alle sue aziende. La questione era venuta alla ribalta con il tweet anti Nutella di Matto Salvini “in quanto ho scoperto che la Ferrero usa nocciole provenienti dalla Turchia”. Vero, sennonché il gruppo di Alba fin dal 2014 aveva acquistato la turca Oltan, storica produttrice di nocciole, proprio per controllare direttamente l’intera filiera. Ma è anche l’indizio di che cosa potrà accadere con un’Europa che proceda in ordine sparso e con un governo italiano che non si muova a sua volta in una logica europea. Presentarsi così di fronte al Regno Unito sarebbe oltretutto un nonsenso, visto lo squilibrio della sua bilancia commerciale e, all’interno, di quella agroalimentare: su 160 milioni di euro di deficit commerciale nel 2018, i prodotti alimentari e agricoli pesano per il 10 per cento e le importazioni dalla Ue in questo campo superano il 70 per cento del totale. L’Italia rappresenta a sua volta il 5,7 per cento di queste importazioni (3,26 miliardi), dietro Paesi Bassi, Irlanda, Francia, Germania e Spagna, ma miglior fornitore rispetto a paesi del Commonwealth come Nuova Zelanda e Australia, e agli Usa; soprattutto nei prodotti di gamma alta. “Ma” dice Borriello “i veri problemi di una hard Brexit verrebbero anche dal riflesso su tutto il nostro export nonché da una svalutazione strutturale della sterlina. Sarebbe l’ennesima dimostrazione che la Brexit e il cieco sovranismo che l’ha alimentata sono un gioco a somma negativa, in cui perdono tutti”.