Il mondo spiegato con l'energia. Chiacchierata con Claudio Descalzi
Gli intrecci con Russia e Qatar. La sfida tra Europa e Turchia. Le tentazioni di Total. E poi l’ambiente e una sorpresa sui rifiuti. L'amministratore delegato dell'azienda ci spiega dove va l’Eni
La regola che si è dato fin da ragazzo è fare senza apparire. “Dipende da mia madre e dalla educazione rigorosa che mi ha impartito”, spiega Claudio Descalzi. “Mai mettersi in mostra, mai dire siamo bravi, siamo arrivati, mai celebrare, nemmeno le feste. Non devi parlare della tua vita, mi diceva, allora forse qualcosa di buono verrà fuori da te”. C’è la Milano, dove il manager è nato 64 anni fa, che ama dire “sta schisc’”, c’è la borghesia del basso profilo, ma c’è anche quel giansenismo che ha impregnato la cultura ambrosiana. Rimboccarsi le maniche, cambiare, nuotare controcorrente e puntare sulla diversità, sono gli obiettivi che si è dato fin da quando ha preso le redini dell’Eni nel 2014. E dopo cinque anni l’amministratore delegato lontano dal circo mediatico-politico, non ha una immagine che lo renda riconoscibile a un ampio pubblico. Gestisce la prima società industriale italiana, l’ha trasformata profondamente, l’ha rilanciata, e forse è arrivato il momento di capire che persona c’è sotto la maschera del capo azienda tutto casa e pozzi di petrolio.
In una conversazione con il Foglio, Descalzi si lascia andare: “Esiste quel che non vediamo, questo per me è un punto fermo anche di natura spirituale, sarà perché sono profondamente cattolico, sarà perché mi piace la nebbia che ti abitua a vedere quel che non vedi. Ciò mi spinge a cercare sempre la novità, a pensare l’impensabile, a battere strade non battute, a credere nelle cose e nelle persone diverse da te. La diversità è fondamentale da ogni punto di vista. Prendiamo le migrazioni: ci mettono di fronte a sfide sconosciute e ci inducono ad affrontarle con umiltà”. Se fosse americano avrebbe già mandato alle stampe un saggio sulla sua filosofia manageriale. Descalzi sorride, ma si schermisce: “Mio padre scriveva molto, poesie, romanzi mai pubblicati, tornava a casa e scriveva, poi per mesi, anzi per anni lasciava il lavoro nella pubblicità o nell’industria per dedicarsi interamente alla sua passione. Anch’io scrivo molto, ma per la mia aziende, per i miei collaboratori, li riempio di progetti, di parole, di grafici”.
L’arrivo sulla poltrona che era stata di Paolo Scaroni coincide con un anno orribile segnato dal crollo del prezzo del petrolio. “La cash neutrality (il costo al quale è possibile ripagare l’investimento) era per l’Eni di 119 dollari al barile, mentre il prezzo era già sceso a 110 dollari. Ora il punto di pareggio è a 55 dollari, ma puntiamo a quota 50”, racconta Descalzi. Il primo obiettivo, dunque, era tornare quanto meno all’equilibrio e raggiungerlo non solo nella estrazione e vendita di gas e greggio, ma anche nelle raffinerie, nella chimica, nei settori collegati. Impossibile ottenere quel risultato tagliando e cucendo un po’ qua e un po’ là, occorreva ridisegnare l’intera struttura della compagnia, compattarla e trovare sinergie tra le sue componenti fondamentali, tornare alla esplorazione e alla produzione, suscitando le perplessità di molti, visto che i maggiori gruppi internazionali facevano il contrario.
Sono stati anni durissimi. Il fatturato, secondo R&S Mediobanca, è sceso dai 109 miliardi di euro del 2014 a 75,8 miliardi nell’anno successivo anche grazie a importanti dismissioni, tra le quali la Saipem al Fondo infrastrutturale che fa capo alla Cassa depositi e prestiti, per scivolare ancora in basso a 55 miliardi nel 2016. In parallelo sono scesi i guadagni: il rendimento sul capitale netto è passato da 2,2 miliardi del 2014 a un rosso di 2,7 miliardi nel 2016, seguendo in parallelo la discesa dei prezzi del greggio. Poi è cominciata la risalita: 7,6 miliardi nel 2018, 6,8 miliardi l’anno scorso. Nei primi nove mesi di quest’anno il bilancio dell’Eni mostra un utile operativo di 6,792 miliardi e un utile netto di 2,330, inferiore a quello dello stesso periodo del 2018 (era stato di 3,133 miliardi). In Borsa il titolo viene trattato attorno ai 14 euro per una capitalizzazione di poco superiore ai 50 miliardi. Ma ora gli analisti raccomandano di comprare, mentre prima consigliavano di tenere le azioni in attesa di tempi migliori. Il debito netto si è ridotto in questi cinque anni da 14 a 8 miliardi di euro e la liquidità è più che raddoppiata raggiungendo i 6,5 miliardi. E’ stato importante riportare in carreggiata la chimica concentrata nella Versalis che punta a specializzarsi nel comparto biologico.
“Andare dove gli altri non vanno”. Tutti si sono gettati sullo shale gas americano, Eni ha puntato su Africa, medio oriente, Norvegia.
L’Eni era una azienda verticale con una holding che controllava società separate, è diventata una compagnia orizzontale e integrata. Gli idrocarburi restano la base, in particolare il gas “fondamentale per la sicurezza energetica e meno inquinante”, però sono esposti a una elevata volatilità che s’abbatte sui conti. Le fonti tradizionali sono destinate a decadere: prima il carbone, poi il petrolio (il picco adesso è fissato al 2030) e dal 2050 anche il gas. Dunque bisogna diversificare nuotando controcorrente. E’ il mantra del Descalzi pensiero, ma cosa significa in concreto? “Andare dove gli altri non vanno, non seguire la moda”, risponde il manager. Per esempio, tutti si sono gettati sullo shale gas americano liberando aree geografiche e spazi produttivi nel comparto tradizionale. L’Eni, invece, non è corsa negli Usa né in Brasile, ha puntato sull’Africa, sul medio oriente, sul Messico off shore e sulla Norvegia acquisendo per 4,5 miliardi di euro attraverso Vår Energi, le attività lasciate dalla Exxon Mobil. Con l’accordo firmato alla fine di settembre, il gruppo italiano diventa il secondo produttore del paese scandinavo con 300 milioni di barili al giorno di oil e gas. In più, ha rilevato un pacchetto di energia eolica e progetti di stoccaggio dell’anidride carbonica molto interessanti.
Tutto ciò ha implicazioni sia economiche sia geopolitiche. Meno Russia e nuove aree: non solo il mare del Nord, ma più Africa, e il Messico con ben sette pozzi tutti in produzione molto prima del previsto e dei concorrenti. All’Eni bastano quattro anni per mettere a frutto il giacimento scoperto, la media nel comparto petrolifero è otto anni. Tradizionalmente forte in Libia, la compagnia italiana ha ampliato il suo raggio d’azione fin nella penisola arabica: sono stati firmati accordi in Bahrain, Oman, Emirati Arabi Uniti. Descalzi è particolarmente orgoglioso dell’investimento in Abu Dhabi dove ha acquistato il 20 per cento di una delle raffinerie più efficienti e importanti del mondo che può produrre fino a un milione e 600 mila barili al giorno. La capacità produttiva dell’Eni aumenta così del 40 per cento. L’accordo consente l’accesso in un’area dove si trova metà delle riserve mondiali e di entrare nella grande raffinazione. “Ci abbiamo lavorato 4 anni poi abbiamo preso 16 licenze in 16 mesi”.
Contro la strategia Eni sono in moto forze potenti. La Turchia s’è messa di traverso, schierando navi in una concessione della compagnia
Andare controcorrente vuol dire anche toccare giganteschi interessi. I più grandi produttori di gas sono la Russia e il Qatar; l’Europa continentale e la Turchia dipendono fortemente dalla Russia (con l’eccezione della Francia grazie al proprio nucleare), la Gran Bretagna è legata al Qatar. “L’Europa è un mercato ricco, ma una scatola vuota dal punto di vista energetico”, spiega Descalzi. I paesi produttori vogliono riempirla e condizionarla. Si sono creati due assi: il primo verticale che parte dal mare del Nord e arriva in Algeria, l’altro che va da est a ovest inizia in Siberia e sbocca in Adriatico. L’Unione europea è il crocevia di queste due linee. L’Eni in questi anni, anche grazie alla scoperta del mega-giacimento Zohr al largo delle coste egiziane ha seguito un percorso diverso che dalla Libia arriva in Israele, passando per Egitto, Cipro, Libano. Contro questa strategia sono in moto forze potenti. La Turchia, ad esempio, s’è messa di traverso, tanto che ha mandato le sue navi in acque cipriote sconfinando in una concessione dell’Eni e di Total.
E’ questo il grande gioco strategico; ecco perché diversificare le fonti e le aree geografiche diventa una strada obbligata. Ma la diversificazione è fondamentale anche all’interno della compagnia che oggi si regge su tre pilastri. Il primo, il più grande, è basato sulla ricerca, l’esplorazione, l’estrazione e la vendita. “Abbiamo scoperto 16 miliardi di barili con tecnologie e algoritmi nuovi. Abbiamo investito in ricerca e sviluppo, siamo passati da 300 a 1.500 ricercatori”. Descalzi sottolinea l’importanza del Green Data Center, il centro di calcolo a Ferrera Erbognone (Pavia), il più potente al mondo su scala industriale. Ciò fa parte di una strategia che tende a utilizzare tecnologie proprie e sviluppare il più possibile in casa quello di cui il gruppo ha bisogno, acquisendo società che hanno ciò che non riesce a generare da solo o stringendo alleanze. Sono stati anni di dismissioni, ma anche di acquisizioni e joint venture che hanno contribuito a cambiare ulteriormente il volto della compagnia. L’Eni aveva puntato sul trading di gas, fortemente ciclico e sottoposto al potere di mercato sia dei fornitori sia degli acquirenti. I contratti a lungo termine si sono rivelati disastrosi in termini di costi e dipendenza. “Perdevamo 500 milioni l’anno adesso facciamo 500 milioni di profitti. Non siamo più compratori, oggi vendiamo il nostro gas e il nostro greggio. E’ un vantaggio da tutti i punti di vista. Un barile scoperto da noi costa un dollaro, per comprarlo ci vogliono da 6 a 10 dollari”.
“I più grandi produttori di gas sono la Russia e il Qatar: provare ad andare controcorrente vuol dire anche toccare giganteschi interessi”
Il secondo pilastro riguarda la trasformazione della materia prima, e qui la svolta è radicale: raffinerie “verdi” da Porto Marghera a Gela, rifiuti organici urbani, rifiuti solidi di olio e biometano. Veniamo così al terzo pilastro cioè le nuove iniziative industriali: produzione elettrica, energia rinnovabile (dal sole con cellule flessibili, e dalle onde marine), economia circolare, sfidando anche qui la moda del momento. Abbattere la CO2, è un obiettivo fondamentale che l’Eni ha fatto proprio, ma la questione è più ampia. “Il mondo ha bisogno di più energia, più pulita, affidabile, sicura, meno inquinante – spiega Descalzi – Fornirla è la missione di una compagnia come l’Eni, è il suo contributo alla transizione ecologica. E può essere fatto utilizzando al meglio le cose più semplici: i rifiuti, l’acqua salata, l’idrogeno. L’acqua è già oggi il maggior bisogno dell’umanità. E noi ci siamo. I rifiuti sono l’oil e il gas del domani. E anche qui ci siamo. Trattare con piccoli impianti che chiamo tascabili 150 mila tonnellate di spazzatura significa trasformare in energia i rifiuti di un milione e mezzo di persone. Nei prossimi anni arriveremo a 600 mila tonnellate, anche grazie all’accordo quadro fatto con Cassa depositi e prestiti. Questi impianti, tra l’altro, producono fino al 60 per cento di acqua pulita per irrigazione”.
L’amministratore delegato prende dal cassetto un dossier a forma di libro illustrato. Ci sono le mappe di tutta l’immondizia prodotta in Italia e l’indicazione di come utilizzarla. Poi lo richiude rapidamente: “Non le posso dire nulla, è un progetto che dobbiamo ancora discutere”. Ma si vede che lo appassiona. Così come quando parla della trasformazione della plastica non riciclabile, in idrogeno e metanolo o, lui che non è ingegnere, ma un fisico, quando spiega come i laboratori dell’Eni stanno lavorando alla fusione nucleare magnetica. E poi c’è il progetto Africa (investimenti in capitale umano e tecnologie per sviluppare l’agricoltura, la pesca, l’artigianato) che potrebbe coinvolgere un milione di persone con un costo totale di 2,7 miliardi in quattro anni.
L’ad tira fuori le mappe dei rifiuti prodotti in Italia e l’indicazione di come utilizzarli: “E’ un progetto che dobbiamo discutere”
La metamorfosi dell’Eni non è finita, al contrario, anche se ha raggiunto una posizione che fa gola a molti pesci grossi, tra i quali Total (fattura 209 miliardi di euro, ma vale in Borsa 49 miliardi, più o meno come l’Eni) che tre anni fa aveva sondato il terreno con il governo Renzi. Era il momento della massima espansione francese in Italia favorita dal presidente socialista François Hollande, preoccupato da un possibile collasso del suo “fronte sud”. Si possono anche attaccare i transalpini e le loro velleità post napoleoniche, ma a Parigi si pensa in modo strategico, a Roma si fa solo tattica.
Nominato da Renzi, ma senza agganci politici (“non ho conoscenze né a Roma né a Milano, al di fuori dei miei contatti istituzionali”, precisa) Claudio Descalzi scade la prossima primavera e la poltrona scotta. “Qualcosa all’Eni deve cambiare” ripete il grillino Stefano Buffagni viceministro dello Sviluppo. Il manager potrebbe farsi forza dei risultati raggiunti, però non basta. La variabile politica si incontra con quella giudiziaria. Da sei anni pende come una spada di Damocle l’inchiesta sulle tangenti che sarebbero state pagate in Nigeria dalla Shell e dall’Eni allora guidata da Scaroni, con Descalzi responsabile delle attività estrattive e produttive. Anche il Dipartimento di stato americano ha investigato (l’Eni è quotata a Wall Street), ma nel settembre scorso ha chiuso l’indagine perché non ha trovato nulla e lo ha messo nero su bianco. Poi c’è la tegola che viene dal Lussemburgo sul presunto conflitto d’interessi che coinvolge la moglie di Descalzi, Madeleine Ingoba, cittadina italiana e congolese, la quale avrebbe investito in una società del Congo, la Petrolservice che forniva servizi logistici all’Eni, così come ad altre società petrolifere. Finora c’è tanto fumo e già s’intravede lo spettro del caso Finmeccanica: le mazzette per la vendita di elicotteri all’India non c’erano, il fatto non sussiste, gli imputati sono stati assolti, ma il più grande gruppo italiano della difesa è stato azzoppato e ha dovuto persino cambiar nome.
Può darsi che gli errori del passato servano da lezione per il futuro. Può darsi che l’azionista di riferimento, il governo attraverso la Cdp che possiede il 25,76 per cento e il Tesoro con il 4,34 per cento, voglia salvaguardare una compagnia strategica, uno dei pochi campioni non solo nazionali, ma multinazionali. L’Eni è un grande gruppo, ha una tecnostruttura complessa, i tempi dell’uomo solo al comando, quelli dei Mattei o dei Cefis sono finiti, tuttavia il fattore umano resta determinante, ancor più nell’aspro mondo dell’oro nero dove dal Texas al mare del Nord, per non parlare del medio oriente o dell’Africa, conta la fiducia, la chimica personale; e dove guardare oltre la nebbia, vedere quel che non si deve, è una questione di sopravvivenza.