Benvenuti robot!
Basta balle. L’automazione aiuta a proteggere le fabbriche, stimola la produttività, migliora i salari. Le nuove tecnologie non sono nemiche dell’occupazione ma sono già oggi formidabili alleati dei lavoratori. Un manifesto anti declinista per un 2020 con meno chiacchiere e più crescita
Nel mio libro “Contrordine compagni” in circa 300 pagine cerco di distruggere la visione del compianto Warren Bennis sulla fabbrica del futuro (“… avrà solo due dipendenti: un uomo e un cane. L’uomo sarà lì per nutrire il cane. Il cane sarà lì per evitare che l’uomo tocchi qualcosa”). Non so cosa farà il cane ma l’uomo e il robot coopereranno. I robot sono tra noi da oltre trent’anni. La mitica Fiat Ritmo, ad esempio, era prodotta a Cassino nel 1978 in uno stabilimento completamente robotizzato e automatizzato. Qualche anno prima anche la Fiat 132 aveva fasi della produzione completamente automatizzate dalla robotica. Oggi però è diverso, il livello dei robot è molto avanzato, hanno sembianze antropomorfe, vicine agli umani, e si prestano bene all’immaginario dei pubblicisti tecnofobi che alimentano il mercato della paura che è anticiclico rispetto a quello della partecipazione e consapevolezza.
Ma cos’è un robot? Possiamo andare dai primi autonomi del Settecento realizzati in legno e cuoio ai primi robot a funzionamento idraulico dei primi anni Sessanta a quelli dotati di chip di microprocessori degli anni Settanta, veri e propri robot industriali, fino a quelli di oggi. E oggi, stando alla definizione di ISO 8373:2012, un robot è “un dispositivo manipolatore con almeno tre o più assi controllato automaticamente e riprogrammabile, multifunzione, fisso o mobile, utilizzato in applicazione di automazione industriale”.
Accanto al robot industriale si stanno affermando anche la robotica collaborativa e la robotica di servizio. Alla base della Fabbrica intelligente ci sono i princìpi della collaborazione sicura (uomo/uomo, uomo/robot e robot/robot) e di interconnettività, che favoriscono l’ingresso sempre maggiore di robot collaborativi, o cobot, i quali grazie a tecnologie di apprendimento mediante l’accesso ai big data, disponibili in cloud, riescono a memorizzare dati e replicare manovre di lavoratori umani con cui sono messi a stretto contatto, e a riconfigurarsi in automatico, per una migliore definizione dei processi.
Secondo le previsioni del World Economic Forum, nel 2015 il costo orario di un robot industriale ha eguagliato quello di un lavoratore. La strada più stupida per rinviare l’incrocio dei due grafici è tassare i robot, quella più intelligente ed efficace è detassare il lavoro, tassare l’ignoranza, trasformando la competenza in moneta intellettuale.
Invito a visitare l’impianto in cui si realizza il motore V12 della Ferrari, dove ragazzi e ragazze con professionalità elevatissime eseguono insieme a robot cooperativi lavori in cui possono ritagliare spazi più umani in quelle operazioni
I vecchi robot industriali erano ciechi, non consapevoli dell’ambiente circostante, pericolosi ma molto competenti in precisione e ripetibilità, programmati per un compito specifico. Avevano necessità di componenti e integrazione, erano costosi e richiedevano programmatori esperti. Le ultime generazioni di robot cooperativi invece vedono, percepiscono l’ambiente e le persone, sono sicuri, focalizzati sulla flessibilità e sulla facilità di utilizzo, eseguono i compiti assegnati proprio come un operatore umano e si integrano perfettamente con altre macchine e persone. Non solo, possono essere addestrati da qualsiasi operatore e hanno costi molto bassi. Su questi temi sono molto preziosi i lavori di Domenico Appendino e della squadra di Siri (Associazione italiana di robotica e automazione), di Ifr e di World Robotics, che citerò a piene mani.
Occorre tassare l’ignoranza perché le aziende che non “formano” costantemente la propria “testadopera” puntano alla sconfitta e inseriscono esternalità negative nel sistema esattamente come chi produce CO2, perciò vanno tassate allo stesso modo. Certifichiamo le competenze, facciamo bilanci delle competenze e vedrete come si muoveranno anche gli indicatori di produttività. Serve uno Skill Monitor aziendale, in cui ogni azienda accanto al bilancio di esercizio, alla quantificazione del proprio patrimonio, certifichi le competenze che ha al proprio interno. Se le accresce o se le depaupera. Lo stesso vale per un territorio. Basta parlare di disallineamento e di skill mismatch. Ogni territorio è in grado di fare il suo skill monitor? Chi conosce le competenze che possiede un territorio? Facciamolo e capiremo su cosa lavorare per attrarre investimenti e costruire un vero ecosistema 4.0, che è la precondizione per lo sviluppo del futuro.
Le tecnologie di ultima generazione
Mentre tutti ragionano con fantasmagoriche analisi relative a macchine pensanti che comanderanno l’uomo, in realtà l’avvento delle tecnologie abilitanti di ultima generazione sta dando più spazio all’uomo. L’avvento dei computer portava alcuni uomini a progettarli ma molti di più a inserire infinite schede perforate per programmarli e successivamente innumerevoli lavoratori a inserire dati e a compilare codici. Per non parlare della vecchia fabbrica fordista in cui in pochi li progettavano, alcuni costruivano le macchine industriali, altri ne programmavano i tempi e moltissimi eseguivano mansioni brevi, alienanti e ripetitive. Le persone che lavoravano sotto la scocca di un’auto o di un treno in costruzione oggi si vedono muovere piattaforme e scocca per garantire una postura a misura d’uomo e non più viceversa. Lo stesso vale per le interfacce con i computer, prima sempre a misura di computer, oggi sempre più a misura d’uomo per consentire che la collaborazione uomo-macchina sia più naturale. Le interfacce sono sempre più intuitive. Lo spazio e il tempo del lavoro sono sempre meno rigidi e questo cambierà tutto.
I lavori “ripetitivi” sono quelli più facilmente sostituibili. A partire dai “copia e incolla” che si vedono in molti mestieri intellettuali. Paradossalmente la manualità, ibridata con le nuove tecnologie, sarà meno sostituibile. Da questo punto di vista i robot cooperativi saranno dei grandi alleati di noi operaisti e industrialisti.
Costruire la carrozzeria di un’automobile necessita di circa 5.000 punti di saldatura. La sinistra ztl dice: che fine hanno fatto i saldatori? Chi vuole bene a quei lavoratori ricorda cosa significava saldare almeno otto ore al giorno e quale fosse la speranza di vita media di una persona che lo aveva fatto tutta la vita. E oggi non può che essere contento di vedere lavoratori che si occupano del settaggio intelligente delle butterfly di quelle dozzine di robot, di controllarne il dialogo, tramite l’internet delle cose e dedicarsi maggiormente alla tenuta e alla qualità di quelle saldature con controlli avanzatissimi, lontani dal rischio di respirare le esalazioni della saldatura.
Invito a visitare l’impianto in cui si realizza il motore V12 della Ferrari, dove ragazzi e ragazze con professionalità elevatissime eseguono insieme a robot cooperativi lavori in cui possono ritagliare spazi più umani in quelle operazioni. Coniugare la qualità del lavoro con la produttività non è un obiettivo sindacale? Insomma trovi persone che dicono: “Ibridarmi io? Mai!” e poi parlano col loro assistente vocale domestico, più che con i loro familiari.
I robot non rubano il lavoro
L’innovazione logora chi non la fa, e si vedono nell’economia italiana gli effetti di aver bloccato il piano Industria 4.0, dell’incapacità di gestione della transizione all’elettrico e dei disastri Ilva: -2,4 per cento della produzione industriale, -2,7 della manifattura su base annua, con i vari settori che arrivano a perdere tra il 4 e l’8 per cento.
In realtà l’automazione 4.0 avanzata ha un netto effetto positivo sulla domanda di lavoro. L’automazione riduce i costi di produzione, riduce i costi del prodotto, riduce il prezzo dei prodotti. La riduzione del prezzo del prodotto aumenta la domanda di prodotti, l’aumento della domanda di prodotti aumenta l’occupazione. Su queste basi abbiamo realizzato numerosi accordi di rientro delle produzioni in Italia. Sempre con tre ingredienti: tecnologie abilitanti avanzate, investimento nelle competenze, nuovi sistemi di organizzazione del lavoro.
L’automazione riduce i costi di produzione, riduce i costi del prodotto e il suo prezzo. La riduzione del prezzo del prodotto aumenta la domanda di prodotti, l’aumento della domanda di prodotti aumenta l’occupazione
Secondo il Mannheim Centre for European Economic Research (ZEW) dell’Università di Utrecht, (2016), i robot consentono alle aziende di diventare o rimanere competitive; gli investimenti in robot hanno contribuito al 10 per cento della crescita del pil pro capite nei paesi Ocse dal 1993 al 2016 (Centre for Economics and Business Research. The Impact of Automation 2017). Tale ricerca documenta che l’utilizzo dei robot ha contribuito al 10 per cento della crescita totale del pil in 17 paesi europei tra il 1993 e il 2007 e che i robot hanno aumentato la produttività per oltre 14 anni in 17 paesi europei.
Per quanto riguarda i dati relativi al lavoro dell’uomo creato dalla presenza dei robot, nel settore automotive, negli Stati Uniti, dal 2010 al 2015 80.000 robot in più hanno determinato un aumento di 230.000 posti di lavoro. Nello stesso periodo e nello stesso settore, in Germania 13.000 robot in più all’anno hanno determinato un aumento di 93.000 posti di lavoro. Il Manheim Centre for European Economic Research (ZEW) ha stimato che l’automazione ha portato un aumento netto di oltre 10 milioni di posti di lavoro nell’Unione europea tra il 1999 e il 2010.
Che cosa è accaduto ai salari
Studi accademici dimostrano che dal 1999 al 2010 l’introduzione della tecnologia ha determinato un aumento della domanda di lavoro per 11,6 milioni di posti in Europa, un effetto non trascurabile se confrontato con una crescita totale dell’occupazione di 23 milioni di posti di lavoro.
In un altro studio condotto in 17 paesi dal 1993 al 2007 si attesta che i robot hanno aumentato i salari senza ridurre le ore lavorate, l’utilizzo dei robot ha infatti aumentato sia la produttività totale sia i salari (Georg Graetz e Guy Michaels per il Centre for Economic Performance della London School of Economics, marzo 2015).
Per la Harvard Business Review, la tecnologia ha distrutto molti posti di lavori in alcuni settori ma in altri ne ha creati di nuovi e i salari dei lavoratori che utilizzano competenze digitali risultano crescere più velocemente. I paesi che hanno investito di più in robot hanno perso meno posti di lavoro rispetto a quelli che non lo hanno fatto. Quindi esiste una relazione tra l’uso di robot industriali e la perdita di posti di lavoro? I dati raccolti da Graetz e Michaels dovrebbe fornire indizi in tal senso. Se i robot sostituissero i lavoratori umani, ci si aspetterebbe che i paesi con tassi di investimento più elevati nell’automazione abbiano sperimentato una maggiore perdita di occupazione nei loro settori manifatturieri. Ad esempio, secondo Graetz e Michaels, la Germania impiega oltre tre volte più robot in ore lavorate rispetto agli Stati Uniti, in gran parte a causa della solida industria automobilistica tedesca, che è di gran lunga il settore a più alta densità di robot (con oltre 10 volte più robot per lavoratore rispetto all’industria media). Eppure la Germania dal 1996 al 2012 ha perso il 19 per cento di posti nel settore manifatturiero mentre gli Usa il 33 per cento.
Pensate a Melfi: l’upgrade tecnologico e di prodotto, senza aumentare il numero di auto prodotte ha difeso l’occupazione. Dal 2015 è tornata ad aumentare l’occupazione dopo un periodo difficilissimo su prodotti a minore contenuto tecnologico e con un processo produttivo più povero.
Leggere il Keynes originale
Il mondo d’oggi è fatto di troppi keynesiani che non hanno mai letto Keynes e altrettanti riformisti più golosi di applausi dei populisti. I primi parlano di “disoccupazione tecnologica”, “perché lo diceva Keynes”; in realtà l’economista inglese, che ha potuto vivere solo la prima rivoluzione industriale, diceva: “La disoccupazione tecnologica nasce dal fatto che scopriamo nuovi modi per risparmiare lavoro a una velocità superiore a quella alla quale scopriamo nuovi modi per impiegare il lavoro; ma è soltanto un disallineamento temporaneo” (J.M. Keynes, 1930).
Secondo una ricerca del World Economic Forum del 2018, nel 2025 la metà dei lavori attuali sarà svolta da robot, con una perdita di 75 milioni di posti di lavoro. Molti si fermano qui. Ma sempre nel 2025, grazie all’automazione e robotizzazione dei posti eliminati, si creeranno altri posti di lavoro, 133 milioni, con mansioni diverse e più qualificate. Il saldo positivo sarà quindi di 58 milioni di nuovi posti di lavoro per l’uomo, più specializzati e qualificati. Tutto questo avverrà se stati, aziende, territori, attori politici e sociali comprenderanno che serve una nuova cultura d’anticipo delle grandi trasformazioni. In particolare sulle competenze, introducendo il diritto soggettivo alla formazione, come nel Contratto dei metalmeccanici, per qualsiasi contratto e lungo tutta la vita lavorativa. Il diritto alla formazione va considerato alla stregua dei diritti umani più importanti. Sapere è libertà e la chiave di accesso a qualsiasi emancipazione umana.
I salari dei lavoratori con competenze digitali crescono più velocemente. L’Italia al secondo posto nel mercato europeo dei robot industriali dopo la Germania. Un calo dopo la sospensione del piano Industria 4.0. La crisi e poi il rilancio: il caso dello stabilimento Fca di Pomigliano. La necessità di un nuovo pensiero del lavoro
La densità robotica
La Corea del Sud, con 774 robot industriali ogni 10.000 dipendenti, rispetto ai 200 italiani e ai 99 della media mondiale, ha una disoccupazione intorno al 4 per cento. Maggiore è la densità dei robot, e più bassa è la disoccupazione. L’opposto della retorica tecnofoba dell’“al posto tuo”. Il lavoro non finirà, sta già cambiando e rapidamente. I robot industriali venduti in Italia nel 2018 sono stati 9.837, con un aumento del 27 per cento (significativamente superiore alla media mondiale pari al 6) rispetto al 2017: un dato che conferma il nostro paese al secondo posto nel mercato europeo dopo la Germania. L’impulso del piano Industria 4.0, ha portato a una crescita fino ai primi mesi del 2019. Crescita che tra il 2013 e il 2018 è stata del 16 per cento. Questo aumento mostra che nel 2018 l’Italia, pur dopo un 2017 di crescita record (+20 per cento), ha presentato un consumo con valore: 4,5 volte la media del mondo (+6 per cento); 2 volte la media europea (+14 per cento) e del Nord America (+14 per cento); 27 volte la media dell’Asia (-1 per cento). L’Italia sale quindi nella classifica mondiale dall’8° al 7° posto per consumo di robot, dal 10° al 9° posto per densità di robot per addetti (dal 5° al 4° posto nella classifica europea). La grande crescita dei paesi asiatici ha portato l’Italia, in un arco maggiore di anni, a posizioni in discesa nella classifica mondiale del consumo di robot. Oggi siamo al settimo posto, ma dieci anni fa rappresentavamo il quarto mercato. E ora la sospensione del piano industria 4.0 nel 2018 sta provocando una flessione che ci sgancia dalle dinamiche positive del resto del mondo.
Il cuore dell’algoritmo
Un titolo come “Licenziato dall’algoritmo” è solo uno dei tipici esempi di un giornalismo che fa volano sulla propria incompetenza per terrorizzare le persone. Algoritmo è un termine sempre più utilizzato, sempre più protagonista nelle nostre vite. Il termine deriva dal latino algorithmus ed è a sua volta una trascrizione del nome del matematico persiano al-Khwarizmi. Gli algoritmi non possiedono né emozioni né istinto, ma tutti sono progettati da un cervello e da un cuore umano: per questo contengono i valori, l’etica e le finalità di chi li progetta, ma il loro uso può essere distorto rispetto alle intenzioni di chi li ha progettati. Per questo serve un approccio che punti al “bene vicendevole”, come lo definisce Ugo Morelli. Qui sta la vera sfida: il futuro è e sarà conseguenza delle scelte che facciamo oggi. Se l’intelligenza rappresenta la capacità umana di risolvere i problemi, l’uomo, rispetto alle macchine, possiede anche una coscienza che lo rende capace di provare emozioni e sentimenti come paura, rabbia, gioia, amore, empatia. Sono emozioni e sentimenti che entrano in gioco nelle scelte etiche e morali e che fanno la differenza tra uomo e macchina.
La creatività umana fornisce la possibile via d’uscita dai vincoli e dagli squilibri del presente. Come specie siamo capaci di generare l’inedito, rompendo il conformismo, in ogni campo della nostra esperienza, e lo facciamo sia per necessità che per desiderio. Crisi ambientale, limiti delle risorse, i conflitti del presente, i pregiudizi e la distruttività umana possono trovare possibili vie risolutive nella nostra creatività, dentro quello che possiamo chiamare ecosistema 4.0.
Un rifondatore del sindacato 4.0 poteva essere ltalo Calvino: nelle sue Lezioni americane si trovano molti spunti proprio rifondativi delle nostre virtù da sviluppare: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità, concretezza. Erano le sue proposte per il nuovo millennio, al tempo stesso sono i pilastri su cui rifondare il sindacato 4.0. Li troverete sparsi nell’idea di nuovo lavoro, con la necessità di ricomposizione della rappresentanza, su basi nuove, che ne consegue.
Perché un sindacalista deve padroneggiare le competenze tecnologiche del lavoro? Intanto, negli anni Sessanta vi fu in questo paese una vera e propria rivoluzione sindacale che portò l’affermazione della contrattazione articolata non tanto su obiettivi generalisti fuori dal lavoro, ma dentro l’organizzazione e le tecnologie di produzione, per ragionare di tempi e condizioni di lavoro in modo né velleitario né astratto. Oggi in un lavoro generato da una sempre maggiore ibridazione uomo-macchina, l’incompetenza tecnologica ha due rischi: 1) relegarci fuori dalle possibilità di incidere sulle condizioni di lavoro, 2) marginalizzarci rispetto a questa formidabile sfida progettuale relativa alle nuove architetture sociali, industriali, economiche in via di ridefinizione.
Secondo una ricerca del World Economic Forum del 2018, nel 2025 la metà dei lavori attuali sarà svolta da robot, con una perdita di 75 milioni di posti di lavoro. Ma sempre nel 2025, grazie all’automazione e robotizzazione dei posti eliminati, si creeranno 133 milioni di nuovi posti di lavoro, con mansioni diverse e più qualificate
Cambiano orari e luoghi di lavoro
La digitalizzazione o più precisamente l’integrazione delle nuove tecnologie di Industry 4.0 cambierà tanti aspetti della nostra vita. Industry 4.0 non è la semplice robotizzazione arrivata in Italia nella seconda metà degli anni Ottanta. Non è neanche la semplice digitalizzazione che fa parlare a sproposito di de-materializzazione, né Internet nella manifattura. Da quando è diventata una moda, soprattutto per tentare di spuntare incentivi fiscali, alcuni fornitori nelle loro pubblicità parlano di prodotti Industry 4.0 ready magari perché le aziende che li producono hanno installato un lettore ottico o un sensore che consenta la connessione di un ferro vecchio. Questo è uno degli errori più grandi che possiamo commettere insieme a quello di leggere il presente con paradigmi del passato, attraverso le lenti del Novecento.
Industry 4.0 cambia integralmente l’idea, la struttura e l’organizzazione di impresa ma, cosa più importante, induce un contestuale cambiamento di ciò che è dentro e ciò che è fuori dalla fabbrica. Secondo alcuni, le nuove tecnologie causano perdita di posti di lavoro ma il contrario è dimostrato dall’esempio di Pomigliano, che approfondisco nel nuovo libro Fabbrica Futuro (Egea 2019) scritto a quattro mani con Diodato Pirone, in cui il gruppo Fiat-Chrysler in accordo con un sindacato moderno e costruttivo ha investito nelle nuove tecnologie. Qui un buon mix tra innovazione e organizzazione del lavoro ha rilanciato un segmento di mercato e una fabbrica che stavano vivendo una profonda crisi. Ciò che è importante sottolineare è il fatto che nuove tecnologie come la robotica e i droni, se da un lato sostituiscono e sostituiranno sempre più gli uomini, dall’altro creano nuova occupazione. Ecco perché serve un sindacato moderno: la smart factory necessita della smart union. Un sindacato intelligente, appunto, che studia propone e orienta e non annega in parole vuote. Ecco l’esattezza e la concretezza.
Molteplicità è abbandonare la sola visione frontale di tutto, come dice Calvino, tutto è un groviglio di reti e di relazioni, di nessi e di legami. La visione frontale del lavoratore ibridato con i robot ci lascia distanti e passivi e un po’ ciechi. Serve un sindacato “in uscita” che anticipi i cambiamenti.
Uno degli aspetti più interessanti di Industry 4.0 è che può contribuire a interrompere la narrazione sul declino dell’industria. Infatti anche settori tradizionali, grazie alla digitalizzazione, possono conseguire un importante guadagno di produttività. Con la quarta rivoluzione industriale cambiano il lavoro, le mansioni e i ruoli dentro l’azienda. Cambia anche il regime degli orari: le tradizionali otto ore o un orario rigido sono inadeguati per un lavoro in una fabbrica smart. Bisognerà allora ripensarli tenendo in considerazione anche la possibilità di controllo remoto del processo produttivo. Senza dubbio stanno cambiando il contenuto del lavoro, la sua collocazione nello spazio-tempo, e sta cambiando adesso. Orario e luoghi della prestazione lavorativa, infatti, sono già oggi in radicale trasformazione. Questa rivoluzione dà inoltre spazio alla creatività e alla progettazione: un’evoluzione positiva e auspicabile. Paradossalmente può essere proprio questo schema di fabbrica, che cambia luogo di lavoro e le competenze richieste, a ridare centralità alla persona: il lavoratore massa diventa infatti un co-progettatore che contribuisce allo sviluppo della fabbrica, incrementando le sue competenze e assumendo un ruolo molto avanzato. L’evoluzione del processo produttivo farà sì che i lavoratori passino da mansioni routinarie e standardizzate al settaggio intelligente di macchinari in un processo produttivo wireless, lontano anni luce dal modello fordista.
Conosciamo l’internet delle persone, quello delle macchine, l’internet delle cose (IOT) cancellerà la catena di montaggio, i macchinari comunicheranno tra loro e con i prodotti mentre la rete commerciale comunicherà con il sistema produttivo. Il fatto che macchina e prodotto comunichino permette a quest’ultimo di acquisire una dimensione sartoriale: il consumatore potrà quindi scegliere un prodotto personalizzato con le caratteristiche da lui desiderate. Siamo molto oltre il just in time, introdotto in Italia sostanzialmente negli anni Novanta. Nel 2013 c’erano più di 10 miliardi di oggetti collegati tra loro, solo l’1 per cento degli oggetti del pianeta; a distanza di pochi anni, precisamente nel 2020, con l’espansione della rete e la maggiore connettività, ogni otto ore si collegheranno a Internet 7,2 milioni di oggetti. In Industry 4.0 l’operaio specializzato sarà sostituito da un operaio con grandissima responsabilità mentre nella logistica la parte manuale perderà molto peso. Non bisogna pensare però che questo tipo di robotica sostituisca completamente le persone: serviranno anzi lavoratori con una qualificazione molto più avanzata. Industry 4.0 comporta una profonda modifica delle competenze del lavoro. Ecco, servirebbe, allora, un Industrial Compact europeo che sostenga le imprese in questa trasformazione, un ETF, un fondo europeo per gestire la transizione. Se consideriamo il settore manifatturiero, che dovrebbe rappresentare il 20 per cento dell’economia dei paesi europei, la posizione dell’Italia è relativamente buona, dal momento che il settore è al 18 per cento rispetto a una media europea del 15. Ma per restare in questo filone di innovazione sono necessarie scelte coraggiose e impegno.
Il ruolo del sindacalista consiste nel creare rapporti forti con i lavoratori che, giorno dopo giorno, comprendono che la loro fiducia non sarà tradita da comode bugie, in particolare quelle condite della retorica dei falsi nemici. Oggi però non va di moda organizzarsi, né fare i rappresentanti di altre persone con uno stile sindacale per cui ci si ostina a dire sempre la verità anche se difficile, anche se diversa da ciò che le persone vorrebbero sentirsi dire. E’ grazie a questa sana intransigenza che si costruiscono rapporti di fiducia con i lavoratori. Ma oggi è anche il tempo di decidere che tipo di società si vuole per il futuro: quella di uomini senza speranza, in perenne conflitto tra loro per una torta di risorse date o in calo, uomini che vedono nell’altro la minaccia al proprio benessere, oppure una società di persone innovative e in relazione tra loro, che sappiano valorizzare le loro capacità di cooperazione, generosità, fiducia e capitale sociale per generare fraternità e produrre fertilità sociale ed economica? Una narrazione novecentesca del lavoro non serve a nulla, bisogna abbandonare la propria pigrizia intellettuale e costruire un nuovo pensiero del lavoro.
Pensate che formidabile sfida, iniziare a costruire una dimensione di lavoro, di vita, di mondo in cui non solo una minoranza di persone coltiva impieghi ad #umanitàumentata. Sarò paradossale ma i robot saranno lo specchio del nostro grado di umanità perché metteranno in trasparenza conformismo, cinismo, anaffettività e al contempo l’unicità e la straordinarietà rappresentata dalla persona che si sente tale nell’interdipendenza fraterna con i suoi simili.
Coltivare l’incontendibile: la nostra umanità
Anche la tecnologia apparentemente più disumanizzante ci pone di fronte a una nuova riflessione sulla nostra dote incontendibile con qualsiasi algoritmo di intelligenza artificiale e qualsiasi robot cooperativo: la nostra umanità. E’ una riflessione che ci mette in crisi, perché l’abbiamo contrabbandata con aspetti che le macchine fanno meglio di noi, proprio per evitare questa riflessione. Le macchine pensanti non sono capaci di pensiero laterale, critico, strategico. Creare e progettare, pensare. Ecco, la nostra umanità favorisce la fatica del pensiero, della costruzione di idee. Fatica confusa con lo scambio di opinioni, che si passano senza fatica. L’intelligenza artificiale ricicla e trasmette meglio le opinioni di un essere umano. E’ uno spreco una persona incapace di pensare.