Il dibattito politico italiano sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes) ha assunto toni surreali. Specialmente considerando la cronica incapacità delle nostre classi politiche di rappresentare all’Europa e ai mercati i punti di forza del nostro paese, tra cui la solidità e la continuità del bilancio primario che l’Italia è in grado di esprimere da ormai quasi tre decenni. Perciò, se vi fosse più consapevolezza di tali punti di forza, e conseguentemente maggiore capacità negoziale, nonché maggiore compattezza tra i partiti italiani nella difesa dell’interesse nazionale, questioni rilevanti come inserire il Mes in una logica di elaborazione complessiva delle riforme europee e non per comparti stagni nemmeno si porrebbe. Anzi, andrebbe semplicemente pretesa come conditio sine qua non affinché l’Italia si sieda al tavolo delle trattative. Così come, nella prospettiva di una unione bancaria europea, l’ipotesi di un meccanismo di eventuale penalizzazione dei titoli di Stato italiani detenuti dalle nostre banche andrebbe respinta al mittente (leggasi paesi del Nord Europa) come una totale assurdità, in quanto i titoli di Stato italiani sono incommensurabilmente più solidi dei derivati che, ad esempio, hanno in pancia per enormi quantitativi le banche tedesche.
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