Lo stato che gioca con le concessioni colpisce la credibilità dell'Italia
Oltre autostrade. Un paese che per conflitti politici revoca contratti impatta assai negativamente sulla propensione a investire
Cosa hanno in comune la decisione parlamentare di modificare le disposizioni legislative che esentavano dalla responsabilità penale i soggetti incaricati di gestire l’Ilva di Taranto e l’imminente decisione governativa sulle concessioni autostradali con la revoca dell’autorizzazione rilasciata vari anni or sono a un’impresa britannica per la costruzione e l’esercizio del terminale di rigassificazione nell’area di Brindisi? Benché siano diverse nella natura e nella collocazione temporale, tutte queste decisioni pubbliche ne modificano o revocano altre, prese in precedenza; lo fanno in modo unilaterale, cioè senza il consenso degli interessati, anzi prescindendo dal loro dissenso. Questo modo di agire non è, in astratto, privo di giustificazioni. Può averne, se il contesto in cui la decisione iniziale era stata presa è radicalmente mutato, in modi imprevedibili in quel momento, o per “sopraggiunti motivi di pubblico interesse”, i quali richiedono una riconsiderazione delle scelte iniziali. E’ questo il caso di un concorso per l’accesso ai pubblici uffici per il quale sia venuto meno l’interesse dell’amministrazione o le risorse finanziarie disponibili si rivelino insufficienti, perché nel frattempo si è dovuto far fronte a un’emergenza. Però, diversamente da questo caso, la revoca di un’autorizzazione o d’una concessione, se comporta un danno economico per i soggetti interessati, dev’essere accompagnata da un indennizzo, volto ad assicurare il ristoro di quel danno. I costi sono maggiori se gli interessati non accettano che lo Stato ci ripensi, lo contestano davanti ai giudici ordinari o amministrativi.
Dunque, quando lo stato o una regione “ci ripensa”, ne derivano ingenti costi per la collettività. Ai costi vanno aggiunti i mancati vantaggi che sarebbero derivati – per i cittadini, per le imprese, per il fisco - dalla mancata realizzazione degli investimenti collegati con la decisione iniziale. Per esempio, nel caso di Brindisi (dove, va ricordato, erano stati commessi errori e illeciti), la società estera che intendeva investire ottocento milioni di euro vi ha rinunciato. Ma i costi economici non sono gli unici, che tutti gli italiani devono sopportare. Non vanno trascurati due ulteriori inconvenienti. Il primo discende dal fatto che, molto spesso, lo Stato o l’ente pubblico che annulla o revoca una precedente decisione si risolve a farlo perché, a suo tempo, non ha effettuato le verifiche e i controlli che era tenuto a svolgere. L’attenzione dell’opinione pubblica si concentra, quindi, sulla opportunità della decisione da prendere oggi per modificare quella precedente, anziché sugli errori e sulle omissioni del passato. Le responsabilità di chi ha governato o amministrato in precedenza sono così offuscate e presto dimenticate.
L’altro inconveniente è ancor più grave. In qualunque tipo di società, i cittadini e gli imprenditori hanno bisogno di una ragionevole certezza del diritto, per poter effettuare le proprie scelte. L’esigenza di certezza è ancora maggiore in una economia di mercato capitalistica, perché essa richiede regole stabili nel tempo, soprattutto per gli investimenti. Lo stato che a distanza di qualche anno, dopo un’elezione o un cambiamento di maggioranza politica, altera o revoca le proprie decisioni ha un impatto molto negativo proprio sulla propensione a investire, perché rende ardua la predisposizione di un business plan oltre il breve, se non il brevissimo, periodo. Dunque, non soltanto negli ultimi anni lo Stato ha ridotto i propri investimenti diretti nelle infrastrutture e nelle opere pubbliche, ma scoraggia anche gli investitori italiani e ancor più quelli stranieri: è, in sintesi, una palla al piede dello sviluppo economico e civile del paese e questo ci allontana dal modello cui i principali partner europei tendono. Come si può porre rimedio a questi inconvenienti? Venti anni fa, un ex-presidente del Consiglio dei ministri ipotizzò d’inserire nella Costituzione una norma che proibisse allo Stato e agli altri pubblici poteri di cambiare idea dopo due o tre anni, ma non se ne fece nulla. Il rimpianto per questi venti anni perduti è grande, speriamo che non aumenti nei prossimi mesi.