Roma. Ci sono almeno ottanta morti accertati, tutti all’interno dei confini cinesi. E sono quasi tremila le persone che hanno contratto il nuovo coronavirus, tecnicamente chiamato 2019-nCoV. La maggior parte si trova nella provincia cinese di Hubei, ma ci sono (pochissimi) casi anche in Thailandia, in Malaysia, in Corea del sud e Giappone, in Vietnam, in Francia e negli Stati Uniti. Il fatto è che più va avanti il contagio, meno sappiamo di questo virus in termini di patogenicità, cioè quanto fa star male e quanto è letale. Per ora siamo passati da un tasso di mortalità del 2 per cento al 3 per cento in pochi giorni. Soprattutto sappiamo poco della sua trasmissibilità: in questi casi gli scienziati si muovono secondo modelli probabilistici, e secondo i calcoli più recenti effettuati dall’Imperial college di Londra, “la trasmissione da uomo a uomo del nuovo coronavirus è l’unica spiegazione plausibile della portata dell’epidemia a Wuhan. […] In assenza di farmaci o vaccini antivirali, il controllo dell’epidemia si basa sulla tempestiva rilevazione e l’isolamento dei casi sintomatici”. Vuol dire: contenimento. Cioè quello che sta facendo la Cina, che il 21 gennaio scorso, una settimana fa, ha iniziato con una specie di quarantena de facto intere metropoli. Sempre secondo l’Imperial college, arrivati a questo punto e con questo ritmo di accelerazione della diffusione del virus, la Cina dovrebbe “bloccare ben oltre il 60 per cento dei contagi per essere efficace nel controllo dell’epidemia”.
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