Come sarà il nuovo Fondo Inps
FondInps non c’entra. La previdenza complementare statale sarà migliore della privata: benefici pensionistici e fiscali, investimenti in Italia scelti da Cdp, rendimenti più elevati
L’articolo a firma di Luciano Capone sul Foglio del 30 gennaio 2020, dal titolo “Sopprimere FondInps”, si sofferma sulla storia del Fondo in questione per rilevarne le presunte inefficienze. L’articolo, però, utilizza FondInps come l’esempio per antonomasia di gestione pubblica di fondi di previdenza complementare. Erroneamente. O forse strumentalmente. FondInps rappresenterebbe, scrive l’autore, un monito, che dovrebbe spingere a rinunciare all’idea di creare un fondo complementare, a contribuzione volontaria, gestito dall’Inps e che costituisca un’alternativa rispetto ai fondi attualmente esistenti.
In primo luogo, occorre ricostruire la storia di FondInps, per sottolinearne la sua vera natura, diversa rispetto a quella di un eventuale fondo complementare alternativo alle forme attuali e, quindi, non destinato ad accogliere risorse finanziarie in maniera residuale (come, invece, accade per FondInps). La legge 23 agosto 2004, n. 243 contiene, all’articolo 1, una delega al Governo volta, tra l’altro, a “sostenere e favorire lo sviluppo di forme pensionistiche complementari”. Tra i principi e criteri direttivi della delega in materia di incremento dell’entità dei flussi di finanziamento alle forme pensionistiche complementari (al comma 2, lettera e), numero 7), è prevista “la costituzione, presso enti di previdenza obbligatoria, di forme pensionistiche alle quali destinare in via residuale le quote del trattamento di fine rapporto non altrimenti devolute”. Con l’attuazione della delega si prevede la costituzione di FondInps nel quale confluiscono le quote non optate del Tfr; in altre parole si delimita il perimetro al solo caso, molto raro, in cui, nel momento di decidere la destinazione del proprio Tfr, il lavoratore non esprima alcuna volontà. Il Tfr, in tal caso, può essere trasferito alla forma pensionistica collettiva prevista dagli accordi o contratti collettivi, anche territoriali, salvo diverse previsioni di accordi aziendali. Laddove si rilevi la compresenza di più forme pensionistiche, il Tfr è trasferito, salvo diverso accordo aziendale, alla forma pensionistica che presenti il maggior numero di aderenti tra i lavoratori dell’azienda. Soltanto qualora non siano applicabili tali disposizioni, si prevede il trasferimento del Tfr maturando alla forma pensionistica complementare istituita presso l’Inps. Con la legge di bilancio per l’anno 2018 è stata disposta la soppressione di FondInps, con decorrenza da determinarsi con decreto del ministro del Lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il ministro dell’Economia e delle finanze. Con il medesimo decreto dovranno essere individuate le forme pensionistiche alle quali far affluire le quote di Tfr precedentemente in capo a FondInps. Attualmente, tale decreto non è ancora stato emanato.
Alla luce di questa ricostruzione si rileva, dunque, in primo luogo, che la natura di FondInps e quella di un eventuale fondo complementare a contribuzione volontaria da istituire all’interno dell’Inps sono profondamente diverse, cosicché qualsiasi accostamento tra i due fondi risulta essere indebita e del tutto strumentale. La natura di FondInps, lo ribadiamo, è quella di un fondo residuale, destinato a raccogliere i Tfr dei lavoratori soltanto in caso di silenzio dei medesimi e di contemporanea assenza delle forme pensionistiche previste dagli accordi collettivi e aziendali in vigore. Il progetto di fondo complementare su cui mi sono pronunciato, in più occasioni, ha una natura completamente differente. Si tratterebbe, infatti, di una forma pensionistica alternativa (e non residuale) rispetto ai fondi attualmente esistenti, caratterizzata da contribuzione volontaria.
La performance di FondInps dipende da problemi strutturali – non sanabili – riguardanti i vincoli al funzionamento contenuti nella norma istitutiva, tanto che la richiesta di soppressione è partita proprio, responsabilmente, dal suo interno. Oltre a una serie di vincoli che limitano enormemente la libertà di gestione, il problema principale, insormontabile, riguarda il numero e la tipologia di aderenti. Si sa che i Fondi pensione basano il loro funzionamento sulla “solidarietà” di una ampia collettività di aderenti, ma per vincoli normativi non c’è alcun modo per FondInps di ampliare questa collettività che infatti è di appena 28.000 individui – per lo più “silenti” e irreperibili, con circa la metà delle posizioni al di sotto dei 100 euro – di cui solamente 6.000 (circa) “attivi” (che versano le quote). Non esistono, perciò, i presupposti di base per l’esistenza di una forma collettiva di assicurazione. Secondo nessun principio, né di Stato né di mercato.
Il nuovo, diverso, Fondo proposto supererebbe le anomalie costitutive di FondInps e avrebbe invece ottime potenzialità di funzionamento, potendo sfruttare strutture e economie di scala dell’Inps. Quanto alla presunta inferiorità di forme pensionistiche complementari gestite dall’operatore pubblico rispetto a quelle gestite da operatori privati, si intende ricordare quanto affermato nel “Rapporto sullo stato sociale del 2019” e cioè che nel 2018 le rivalutazioni medie del Tfr e delle pensioni calcolate con il metodo contributivo sono state più elevate del rendimento medio dei fondi attualmente esistenti.
Guardando più nel dettaglio ai rendimenti dei diversi fondi pensione (dati forniti nella Relazione annuale della Covip per il 2018), si nota che, nel 2018, i rendimenti di tutte le categorie di fondi sono stati inferiori alla rivalutazione del Tfr. In particolare, hanno fatto registrare rendimenti negativi (e, dunque, perdite) i fondi negoziali (-2,5%), i fondi aperti (-4,5%) e i Pip “nuovi” unit linked di ramo III (-6,5%;). Soltanto per le gestioni separate di ramo I il risultato è stato positivo (+1,7%). In ogni caso, comunque, i rendimenti di tutti i fondi pensione sono stati inferiori alla rivalutazione del Tfr, che è stata del +1,9%. Il risultato non cambia se si guarda ai due anni 2017 e 2018. Mentre la rivalutazione del Tfr è stata pari, nel periodo, al +1,8%, i fondi negoziali hanno dato un rendimento quasi nullo (+0,1%), i fondi aperti hanno dato un rendimento negativo (-0,7%), così come i Pip “nuovi” unit linked di ramo III (-2,2%). Le gestioni separate di ramo I hanno dato un rendimento pari a quello della rivalutazione del Tfr. Prendendo in considerazione anche il 2016, la rivalutazione del Tfr nel triennio 2016-18 (+1,7%) supera il rendimento dei fondi negoziali (+0,9%), dei fondi aperti (+0,3) e gli unit linked di ramo III (-0,3%). In questo periodo, solo le gestioni separate superano la rivalutazione del Tfr, con rendimenti del +1,9%. Soltanto su periodi di investimento più lunghi i rendimenti dei fondi superano (e non sempre, per i fondi aperti) la rivalutazione del Tfr. In sintesi, quest’ultimo, in tutto il periodo sembra garantire una certa stabilità, che non si ritrova negli altri fondi, oltre che per alcuni periodi un maggior rendimento.
Tali forme pensionistiche complementari, inoltre, come rilevato ancora dalla Covip, sono caratterizzate da una partecipazione tutt’altro che elevata. A fine 2018 risulta iscritto alla previdenza complementare soltanto il 30,2% delle forze di lavoro, percentuale che si riduce al 22,7% se si prendono in considerazione i lavoratori effettivamente versanti nell’anno. Quanto alla classe di iscritti che non versa contributi da almeno tre anni, definita come quota di non versanti di natura strutturale, si aggira intorno al 9% dei lavoratori dipendenti e supera il 31% tra i lavoratori autonomi.
Sempre Covip sottolinea, poi, che in pochissime occasioni la contribuzione ai fondi complementari ha dato luogo a un’erogazione di prestazioni sotto forma di rendita. Nel 2018 vi sono stati 94.000 riscatti (erogazione – esigibile solo in presenza di determinati requisiti attinenti l’iscritto – in un’unica soluzione, antecedentemente all’accesso al pensionamento), 91.000 erogazioni in forma di capitale e soltanto 4.000 trasformazioni in rendita. Di queste ultime, una gran parte è concentrata nei fondi preesistenti (già esistenti, cioè, al 15 novembre 1992, prima dell’introduzione, con il decreto legislativo 124/1993, nell’ordinamento italiano della previdenza di “secondo pilastro”).
Infine, per rimarcare ancora una volta la differenza tra FondInps e il fondo pubblico proposto dall’Inps, ribadiamo le caratteristiche di quest’ultimo. Il nuovo Fondo:
– sarebbe un fondo pubblico gestito dall’Inps e avente un campo di applicazione potenzialmente più ampio perché aperto all’adesione non solo di tutti i lavoratori, ma anche dei cittadini inoccupati qualora essi, sebbene non ancora entrati nel circuito lavorativo, vogliano comunque iniziare a costruirsi una posizione previdenziale complementare, con versamenti diretti o indiretti (di terzi, genitori, nonni);
– creerebbe una stretta correlazione con la previdenza obbligatoria, in modo tale che l’adesione al fondo non si limiti a garantire all’aderente una misura pensionistica più alta, ma abbia implicazioni anche nel campo dei requisiti necessari ai fini della maturazione del diritto al trattamento pensionistico nel sistema contributivo. Inoltre, contemplerebbe la possibilità di vantaggi e incentivi fiscali, socialmente orientati, individuati dal legislatore, tali da modificare in qualche modo l’attuale composizione della previdenza complementare gestita dai privati, che attira sostanzialmente soggetti con redditi medio alti, di genere maschile, non giovani e prevalentemente delle regioni ricche del paese. Come dire: allo stato attuale, chi ha redditi più alti avrà pensioni più alte, cristallizzando i già elevati livelli di disuguaglianza nel paese. In questo senso la previdenza complementare pubblica si collocherebbe anche in funzione anti-ciclica, e contribuirebbe a raggiungere una maggiore flessibilità in uscita dal mercato del lavoro, e un possibile collegamento con una costituenda “pensione di garanzia” a favore di giovani che sarebbero incentivati ad accumulare anche in questo pilastro che potrebbe essere definito “sui generis” a metà tra il pilastro obbligatorio e quello complementare. Il fondo avrebbe quindi una caratterizzazione spiccatamente orientata alla platea giovanile.
– prevedrebbe sistemi di investimento dei capitali nell’economia reale, raccolti in asset socialmente responsabili che siano in grado di assicurare adeguati rendimenti. I risparmi raccolti attraverso il nuovo Fondo verrebbero amministrativamente gestiti da Inps, con un risparmio notevole di costi di gestione, molto alti nel settore privato. La gestione degli investimenti sarebbe però concessa a Cassa Depositi e Prestiti, che canalizzerebbe gli investimenti nel paese, non solo in titoli di Stato ma anche in investimenti infrastrutturali, in investimenti green-oriented in linea con il New Green Deal varato dal governo. Capitali pazienti, con buoni rendimenti nel lungo periodo, oltre che stabili, adatti a soggetti altrettanto pazienti, che fanno un investimento con un riscatto solo oltre i 60/65 anni di età circa. Diversamente dal tipo di destinazione attualmente prevalente per i fondi privati, che vede, solo nel 20% dei casi un investimento in Italia, mentre nel rimanente 80% dei casi, su 167 miliardi, una destinazione estera. Investimenti spesso speculativi, che comunque non hanno raggiunto, se non in alcuni periodi, come abbiamo visto, rendimenti più alti del Tfr.
Pasquale Tridico è presidente dell’Inps
Risponde Luciano Capone:
Gentile presidente, intanto grazie per la risposta. Non ho scritto che i due fondi sono uguali, ma che il caso FondInps ha fatto emergere come problemi proprio quelli che nella sua descrizione dovrebbero essere i vantaggi del nuovo fondo complementare dell’Inps. Uno è l’abbattimento dei costi amministrativi, che nel caso di FondInps erano di gran lunga superiori ai concorrenti, e quindi non si è visto il risparmio derivante dalle economie di scala dell’Inps. L’altro riguarda la strategia d’investimento con un forte home bias, cioè concentrata in Italia: questa mancata diversificazione porta a maggiori rischi e minori rendimenti, come dimostra proprio il caso di FondInps che investiva il 93% in titoli di stato italiani. L’indirizzo di investimento “autarchico” dato al nuovo fondo va nella stessa direzione: anche se non saranno esclusivamente Btp, saranno comunque titoli italiani – azionari o obbligazionari – legati a doppio filo al rischio paese, quello su cui peraltro già poggia il primo pilastro (la previdenza obbligatoria dell’Inps).
Nella sua risposta, dove per la prima volta delinea più nel dettaglio la visione e le caratteristiche del nuovo fondo dell’Inps, ci sono però altre incongruenze e criticità da non sottovalutare. Innanzitutto, quando afferma che nel 2018 le rivalutazioni medie del Tfr e delle pensioni calcolate con il metodo contributivo dimostrerebbero una capacità del pubblico di gestione migliore dei privati, c’è un equivoco di fondo: il rendimento del Tfr è un prezzo amministrato (fissato per legge) e la rivalutazione delle pensioni contributive (anch’essa fissata per legge) riguarda un sistema pensionistico a ripartizione, in entrambi i casi il pubblico non investe alcunché e quindi non sono comparabili ai fondi pensione. Quanto al rendimento dei fondi complementari rispetto al Tfr, è sul lungo termine – visto che si tratta di pensioni – che va fatta una valutazione e, come scrive lei, i rendimenti dei fondi superano con un ampio margine quelli Tfr, che “sembra garantire una certa stabilità” per l’ovvia ragione che la rivalutazione del Tfr è stabilita per legge. Inoltre, se lei ritiene che la rivalutazione del Tfr sia preferibile all’investimento nei fondi pensione, non si comprende perché poi proponga l’istituzione di un nuovo fondo dell’Inps che opererebbe nel medesimo mercato che produce gli stessi rendimenti dei fondi privati (meglio il Tfr, no?).
Quanto alle caratteristiche del nuovo fondo Inps, emergono diverse distorsioni. In primo luogo, legare l’adesione al Fondo complementare dell’Inps ad agevolazioni e ulteriori benefici sul primo pilastro (la previdenza obbligatoria), oltre a comportare un costo per i contribuenti futuri (debito implicito), darebbe al fondo statale un vantaggio enorme rispetto ai fondi privati che non potrebbero garantire questi diritti e benefit. Stesso discorso per quanto riguarda i “vantaggi e incentivi fiscali socialmente orientati”. Queste agevolazioni, se non ho capito male a beneficio dei soli aderenti al Fondo dell’Inps, spiazzerebbero gli investimenti dal settore privato a quello pubblico: l’Inps non andrebbe a fare concorrenza ai privati nel mercato, ma distruggerebbe il mercato attraverso vantaggi anti-concorrenziali.
Per ciò che riguarda gli investimenti domestici infrastrutturali green-oriented e con “buoni rendimenti” decisi da Cdp, non si capisce perché non vengano fatti già adesso dalla Cassa vista sua la potenza di fuoco data dal risparmio postale, dai fondi strategici e per l’innovazione. E non si comprende come mai a questi investimenti non abbiano già pensato i privati che, di fronte alla prospettiva di alti rendimenti, sanno essere molto “pazienti” (i fondi pensione lo sono per definizione). L’idea che in Italia esistano possibilità d’investimento con rendimenti elevati, sicuri e a portata di mano di cui però nessun investitore (nazionale o internazionale, istituzionale o di venture capital) si accorge, e che questi frutti grandi e succosi stiano da tempo lì appesi solo in attesa di essere raccolti da un fondo complementare Inps-Cdp, forse è un’idea un po’ naif.