Giovanni Tria (foto LaPresse)

L'allarmismo economico sulla Cina è molto ma molto esagerato, ci dice Tria

Renzo Rosati

“Il Coronavirus più che pregiudicare la crescita la rallenterà, ma tutto si recupera. L’Italia farebbe meglio a non cercare alibi”

Roma. Tra chi pensa che nel dramma cinese la globalizzazione rappresenti più il vaccino (in fatto di condivisione di conoscenze, responsabilità e ricerca) e chi invece più il virus (in quanto il suo impatto economico e sociale si riflette sul resto del mondo), Giovanni Tria, ex ministro indipendente dell’Economia nel governo gialloverde, sta decisamente dalla parte dei primi. “C’è sempre qualcuno che non aspetta altro che puntare il dito contro la modernità e il mondo interconnesso. Ma intanto la storia ci descrive come più letali pandemie recenti come la Sars e l’Ebola, e remote come la Spagnola che uccise dieci volte più della Grande guerra. In secondo luogo ci siamo abituati a considerare la Cina come un partner naturale a tutti gli effetti, e così loro vedono noi come il maggiore sbocco di mercato: e tutto questo è un bene, un traguardo dal quale non si può tornare indietro a meno di non mettere in discussione la capacità di progredire, di migliorare i nostri livelli di conoscenza scientifica e di reazione pratica”. Intanto però c’è il rischio di pregiudicare una crescita mondiale e dell’Italia già in sé non esaltante. “Più che pregiudicarla credo che la rallenterà, per poi recuperare tutto. Le ultime stime dicono che la contrazione mondiale temporanea oscillerà tra lo 0,15 e lo 0,3 per cento: decimali. Il vero problema è che la Cina è ormai al centro della supply chain globale: non c’è prodotto o tecnologia che non abbia almeno un componente cinese. Ma proprio il precedente della Sars dimostra la loro straordinaria capacità di reazione: 17 anni fa il pil era il tre per cento di quello mondiale, nel 2020 anche nello scenario peggiore si fermerà al 13 per cento”. 

 

 

“Poi – continua Tria – teniamo conto che messi assieme Usa, Europa e Cina producono meno della metà della ricchezza globale: non c’è ragione di abbandonarsi a visioni apocalittiche, un difetto di chi ha poca fiducia nel progresso e magari in se stesso, un vizio soprattutto della parte più ricca del globo”. Invece Tria vede un altro rischio: “Che come già per la cybersecurity qualcuno, la politica di Donald Trump in particolare, evochi ora l’incognita o peggio la frode sanitaria della Cina come pretesto per stabilire nuovi protezionismi, per deviare a proprio favore il libero commercio e scambio tecnologico. La sindrome cinese, in questo caso al contrario, così come un tempo quella del Sol levante, è sempre molto evocativa per l’opinione pubblica Usa”. Quello che per l’America può essere un pretesto, per l’Italia a crescita piatta può diventare un alibi? “Serpeggia già qualche tentazione. Ovvio che il danno c’è, sul turismo, sulla moda, sui commerci. Ma non scambiamo un fatto temporaneo, e che riguarda anche altri, come la solita via di fuga per un paese che prosegue in stagnazione, anzi stando agli ultimi dati la accentua. Quando la Germania è andata in crisi nel settore dell’Auto, si è data la colpa a quella. Ora il pil della Germania si riprende e il nostro resta al palo. E il gap tra Italia e resto d’Europa aumenta. Da questo punto di vista la discontinuità tra governo gialloverde e rossogialli non c’è”. Lo spread però è migliorato. “Ed è un bene ovviamente. I mercati si fidano più di questo governo in quanto nessuno, ora, minaccia di uscire dall’euro o di non sottostare agli obblighi di Bruxelles. E non mi riferisco solo alle intemperanze di certi della Lega”.

 

I 5 stelle non sono più visti come rischio fatale? “Ma restano un partito bizzarro del quale non si capisce, e non lo capiscono i mercati e gli investitori, che cosa siano e cosa vogliono”. Sono dunque loro l’elemento di continuità tra gialloverdi e rossogialli? “Per chi guarda l’Italia da fuori è un dato di fatto. Ma più in profondità c’è un elemento che va ben oltre ogni governo, ed è l’incapacità di produrre ricchezza e della straordinaria capacità, invece, di complicare la vita a chi vuol farlo, che si tratti di capitali stranieri o italiani. Per esempio i famosi investimenti che non si sbloccano mai: ho esaminato la cosa e ho trovato che c’è un mix di congenita burocrazia nazionale, di assenza di progetti locali – per quanto ne dicano gli interessati, molti cassetti li ho trovati vuoti – ai quali in ultimo si è aggiunto il giustizialismo grillino, e non solo”. Un esempio? “Il codice degli appalti. La magistratura invasiva. L’incertezza del diritto, che aumenta”.

 

L’Europa è piena di vincoli regolatori, ai quali diamo spesso la colpa. “L’Europa di colpe ne ha molte, a cominciare dalla sua confusione, dalla indeterminatezza, dagli interessi in conflitto. Ma non certo la colpa della nostra paralisi. Tanto che l’Olanda, per semplificarsi le cose e incentivare gli investimenti e il pil, ha scelto la legislazione comunitaria rinunciando alle norme nazionali in fatto di infrastrutture. Mentre si è tenuta le mani libere sul fisco delle società, attirando capitali”. Lei è stato protagonista informato di quella stagione. Anche la Lega ha fallito. “E come no. A parte la campagna antieuropea, cito solo di avere impedito l’alleggerimento dell’Irpef sacrificandolo al blocco dell’Iva. Capisco che porta più consensi, popolari e organizzati, ma ancora devo capire perché l’Iva su una camera in albergo o un ristorante sia metà di quella su una camicia. Non è così a Londra e New York, dove i turisti non mancano. Io avevo proposto di aumentare l’Iva dove era logico, riducendo l’Irpef con un meccanismo di tipo tedesco, del quale ora si torna a parlare: cioè aliquote più basse a progressione continua, senza gli scaloni che disincentivano il guadagno. Giancarlo Giorgetti era d’accordo, Matteo Salvini ha voluto invece quota 100. Un errore fatale”.

 

Sono credibili le ipotesi attuali di riforma fiscale? “Non molto per mancanza di risorse, se non si agisce in senso antipopulista sulle imposte indirette. Vale lo stesso discorso del blocco degli investimenti: lì si è paralizzato tutto con la demagogia delle norme, nel fisco con quella dei bonus”. In Europa riaffiora la questione della riforma del Patto di stabilità. “Io l’anno scorso il riallineamento l’ho fatto, anche il Fondo monetario ne ha dato atto. E spesso mi sono trovato, pur ministro gialloverde, su posizioni più europeiste dei sacerdoti del rigore. Il vero problema non è la Germania; cito ancora l’Olanda che è piccola ma ha grande influenza. La Francia ha il merito di annunciare notevoli riforme, purtroppo irrealizzabili. E tutti hanno più forza dell’Italia”.

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