Licia Mattioli (foto LaPresse)

Un'altra Confindustria contro l'éra del reddito di cittadinanza

Annalisa Chirico

“Il Rdc riduce la propensione a lavorare. Serve uno choc”. Parla la candidata alla presidenza Licia Mattioli

Roma. Al posto del doppio filo di perle indossato dalle madamine torinesi, Licia Mattioli sfoggia gioielli in oro e brillanti, dal taglio moderno e deciso. Del resto, li produce. “We have to win”, scandisce l’imprenditrice piemontese, con natali partenopei e radici umbro-apule, mentre sorseggia un caffè su un divanetto dell’Hotel Bernini. E’ la candidata alla presidenza di Confindustria, l’outsider le cui quotazioni salgono giorno dopo giorno. “Macino chilometri su chilometri, come una maratoneta. Sono una combattente con un sogno”. Quale? “Voglio lasciare il segno perché noi possiamo cambiare il paese”. Voi chi? “Gli imprenditori che ogni giorno rischiano in prima persona per portare avanti l’azienda, grande o piccola che sia, rappresentano l’ossatura del paese. Dobbiamo tornare a credere nella nostra straordinaria capacità imprenditoriale che, per paradosso, oggi è più apprezzata all’estero che in patria”.

 

  

Le hanno rimproverato di non parlare abbastanza di donne. “Ho ritenuto pleonastico inserire nel programma un punto ad hoc sul genere femminile. Voglio dire: io sono donna e imprenditrice, la mia esperienza vale più di ogni racconto. La questione numero uno, oggigiorno, riguarda la conciliazione: mettere tutto insieme, famiglia e professione, è complicatissimo. Io dico: spendiamoci per un mondo a misura di donna e di famiglia, come avviene nel nord Europa”. Quanto hanno contato gli uomini nella sua vita? “Molto, moltissimo. Io credo nel connubio tra noi e loro. Nel 1995, mio padre, che era dirigente della Pirelli, volle acquistare una piccola azienda orafa, l’Antica Ditta Marchisio, che impiegava 30 dipendenti, oggi sono 270. Mio marito praticamente non mi vede mai perché sono sempre in viaggio, saltello da una parte all’altra, lui fa il medico, conduce una vita più regolare, eppure da vent’anni è la mia roccia e la mia certezza. Senza il supporto suo e dei miei due figli non mi sarei mai imbarcata in quest’avventura”.

 


“L’Italia deve essere un paese normale: servono sburocratizzazione e giustizia efficiente. Sono riforme di lungo periodo ma i governi durano poco e la politica sembra badare solo al consenso immediato. Le politiche per l’industria deve farle chi l’industria la conosce. Oggi c’è troppa improvvisazione anche al governo”


 

Lei è una donna temeraria, si sente. “Sono una persona determinata. Non volevo restare spettatrice dell’ennesima sfida tra uomini, allora mi sono detta: è venuto il momento di mettersi in gioco”. Lei, laureata in legge, doveva diventare notaio, come sua madre. “Eh sì, ma il corso degli eventi talvolta ci spiazza. Ho sempre avuto la passione per gli accessori: scarpe, borse, gioielli. Da ragazzina realizzavo orecchini e bracciali con le pietre in vetro di Murano per regalarli alle amiche. Così, quando mio padre decise di investire nel settore, mi innamorai, letteralmente, del corpo e dell’anima di quel negozietto. Non volevo passare però per la figlia di papà, e così superai comunque l’esame di avvocato, salvo poi tornare a casa per annunciare ai miei: io voglio fare l’imprenditrice”.

 

Nel 2013 la vostra famiglia ha ceduto l’Antica Ditta al colosso svizzero del lusso Richemont, e dallo spin off che ne è derivato, voi siete ripartiti con una nuova società, oggi eccellenza dell’oreficeria italiana, con un fatturato consolidato di 70 milioni di euro, l’80 percento di export in trenta paesi e 150 punti vendita. “E’ andata esattamente così. In un periodo in cui tutti delocalizzavano in Cina, noi abbiamo deciso di restare in Italia: i nostri unici due stabilimenti si trovano a Torino e a Valenza. Abbiamo unito alla straordinaria artigianalità italiana l’efficienza produttiva adottando i metodi di lean production, Tpm (total productive maintenance, ndr) e le macchine a controllo numerico”. Da vicepresidente di Confindustria lei si è occupata di internazionalizzazione. “La mia era una delega time consuming... Ho realizzato 60 missioni per accompagnare tremila aziende all’estero. In Italia ci chiamano ’prenditori’, fuori invece ci dicono che siamo i migliori al mondo. Al di là della becera retorica contro le multinazionali, la verità è che serve un piano di retention: queste imprese a capitale estero vanno incentivate a restare in Italia perché il 70 per cento dei nuovi investimenti proviene da loro. Le segnalo due dati: per ogni euro di valore aggiunto se ne creano 3,6 nell’indotto, un dipendente diretto ne produce quattro nelle aziende satellite”.

 

Con una crescita del Pil dello 0,3 per cento e 150 tavoli di crisi aziendali in corso, il suo manifesto pro impresa sembra fuori tempo massimo. “L’Italia deve essere un paese normale: servono certezza del diritto, sburocratizzazione e giustizia efficiente. Sono riforme di lungo periodo ma i governi durano poco e la politica sembra badare soltanto al consenso immediato”. Che pensa del reddito di cittadinanza? “Dico che riduce la propensione a lavorare. Va bene aiutare chi si trova in difficoltà ma è sempre meglio fornire una canna da pesca al posto di un pesce. Se fosse per me, al sud comincerei da un gigantesco piano infrastrutturale”. Con una produttività in calo da oltre vent’anni, la politica sembra inerte. “Le politiche per l’industria deve farle chi l’industria la conosce. Oggi c’è troppa improvvisazione anche al governo, con conseguenze catastrofiche”. Come intende cambiare viale dell’Astronomia? “Voglio riorganizzare la struttura, adeguarla all’industria moderna. Io dico sempre che siamo capillari come Poste italiane ma non parliamo con una voce unica, il che ci rende meno incisivi”.

 

L’Italia può permettersi, come gli inglesi, di dire bye bye all’Ue? “Tale ipotesi non è neppure da prendere in considerazione, non scherziamo. Mi sembra tuttavia che l’idea sia stata abbandonata da tutti. I primi due mercati del nostro export sono Germania e Francia, piuttosto dovremmo collaborare di più con i nostri omologhi tedeschi e transalpini nei settori tecnologicamente avanzati, nel campo dell’aerospazio e dell’intelligenza artificiale”. La Cina è un’opportunità o un cavallo di Troia? “L’export verso Pechino vale circa 15 miliardi di euro. Dobbiamo continuare a investire usando cautela perché la Via della Seta deve essere ’two ways’, i nostri brevetti vanno tutelati, le pratiche di dumping, messe in atto da certe imprese cinesi, vanno sanzionate e le infrastrutture 5G non possono trasformarci nell’anello debole del continente. Il rapporto con la Cina va gestito a livello europeo: serve più Europa, non meno”.