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Sindacati in cerca di ruolo nella discussione sul salario minimo

Barbara D'Amico

La richiesta della Commissione europea di imporre a paesi come l’Italia la riduzione della sperequazione salariale non solleva questioni di soglie, ma di equilibrio di poteri

Torino. Non è questione di soglie, signora mia, ma di equilibrio di poteri. Anzi, di braccio di ferro tra sindacati e politica. Si può spiegare solo così lo stallo italiano sull’introduzione di un salario minimo legale richiesto dall’Unione europea. Ora che la Commissione Ue vuole una direttiva per imporre a paesi come l’Italia la riduzione della sperequazione salariale, la questione non è più se sia opportuno o meno fissare una soglia base agli stipendi, ma solo come applicarla senza creare danni ai lavoratori e alle imprese. Perché si possa però anche solo discutere l’introduzione di una paga minima di legge, occorre affrontare il tema delle prerogative riconosciute a chi oggi definisce con le aziende e per conto dei dipendenti quelle soglie e quei criteri retributivi, cioè i sindacati.

 

Quello stesso potere rappresentativo e contrattuale che la politica ha delegato per decenni ai corpi intermedi (e che ha permesso con fatica di introdurre stipendi minimi e tutele dignitose obbligatorie grazie ai contratti collettivi nazionali), oggi è rimesso in discussione da uno stato ansioso di dimostrare la sua titolarità sulla materia. Lo provano le continue fumate nere al tavolo della maggioranza, incapace di produrre un testo base condiviso da presentare in Parlamento. L’ultima risale a giovedì 20 febbraio, quando la ministra del Lavoro, la grillina Nunzia Catalfo, ha riproposto la soluzione caldeggiata da Cgil, Cisl e Uil, ovvero l’introduzione di 9 euro lordi l’ora da agganciare alla contrattazione collettiva. In questo modo, spiegano le organizzazioni, quella soglia verrebbe applicata solo ai settori in cui il minimo retributivo sia più basso, senza toccare scaglioni superiori già concordati in altri comparti. Il tutto all’interno del perimetro dei contratti nazionali.

 

Un’impostazione condivisa in parte anche da Confindustria, che si è detta sempre contraria al salario minimo per legge. L’associazione, più che sposare incondizionatamente la posizione dei sindacati, teme un aumento dei costi in capo alle aziende nel caso in cui sia lo stato a mettere mano alle soglie. Il resto della maggioranza, contrario alla proposta Catalfo-sindacati, vuole infatti un salario minimo lineare legale non inferiore al 70 per cento della mediana delle retribuzioni (da calcolare sempre in base agli stipendi previsti dagli attuali Ccnl principali ma che di fatto manderebbe in pensione la contrattazione per singoli comparti). Questa opzione riporta nelle mani del Parlamento il grosso del potere decisionale in fatto di salari, ma può avere anche effetti collaterali indesiderati. Ad esempio, l’aumento delle paghe in modo non proporzionato alla qualità e alla quantità del lavoro di ciascuno. Oppure, la loro riduzione in ambiti in cui oggi i contratti collettivi già prevedono soglie più alte, come quelli bancari, chimico e metalmeccanico. Perché allora non rendere tutto più semplice e riconoscere ai criteri individuati dai sindacati forza di legge?

 

“Abbiamo già dei minimi contrattuali per tutti i settori merceologici, per questo vogliamo siano estesi con valore erga omnes dando invece più spazio alla lotta all’elusione contrattuale”, spiega al Foglio Tiziana Bocchi, segretaria confederale Uil, esprimendo una posizione condivisa anche da Cisl e Cgil ma che di fatto alza la posta in gioco. Estendere l’efficacia della contrattazione collettiva erga omnes, cioè anche a categorie di lavoratori o a settori oggi non coperti da quelle disposizioni, significa riconoscere per legge ai corpi intermedi un potere decisionale importante. E chi a quel punto avrebbe l’ultima parola sugli aggiustamenti retributivi di fronte alle aziende per conto di tutti i lavoratori? Nei testi fatti circolare ai tavoli tecnici la risposta è: le sigle maggiormente rappresentative. Una formula che di fatto esaudisce il desiderio delle realtà confederali, sfoltire l’attuale giungla di sindacati minoritari e di contratti – oltre 800 – in vigore. Una misura necessaria, ma che andrebbe presa componendo in un’unica soluzione le molte anime ed esigenze che ruotano attorno alla questione salariale e rappresentativa. Insomma, una decisione politica. Non solo sindacale.