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Il decreto Cura Italia mette in quarantena i liberi professionisti

Barbara D'Amico

Tutti coloro che sono iscritti a casse previdenziali diverse dall'Inps (avvocati, architetti, commercialisti ecc.) non avranno diritto ai 600 euro di indennizzo previsti a marzo. Forse potranno sperare di ottenere qualcosa in più ad aprile

I liberi professionisti dovranno attendere. Forse potranno sperare di ottenere misure di sostegno più corpose per la loro categoria ad aprile, quando il governo presenterà un nuovo decreto per gestire l’impatto del coronavirus su aziende e lavoratori. Certo è che il provvedimento varato il 16 marzo dall’esecutivo - il decretone Cura Italia, 25 miliardi stanziati per sostenere l’economia - è un’occasione mancata di riconoscimento di una fascia di lavoratori particolarmente fragile.

Il  testo è coraggioso e prova a fare la quadra in tempi strettissimi tra le esigenze delle diverse anime produttive del paese e quelle delle famiglie (con incursioni non sempre congrue, ad esempio l’istituzione di un fondo per il Made in Italy e l'internazionalizzazione delle eccellenze italiane, in un momento in cui gli unici venti che soffiano sono quelli del blocco delle produzioni).

 

Nella sua titanica complessità, il decreto contiene elementi che nei prossimi mesi renderanno difficile il dialogo tra politica e rappresentanti di avvocati, ingegneri, architetti, giornalisti, commercialisti e in generale di quelle categorie non espressamente richiamate dalle norme ma neppure rispettose delle condizioni che consentono, ad esempio, di ottenere l’indennizzo di 600 euro una tantum per il mese di marzo. 

 

Mentre scriviamo il governo non ha ancora pubblicato il testo definitivo, ma nella bozza circolata fino al 16 marzo questa disposizione prevedeva che i soldi fossero erogati dall’Inps e fino ad esaurimento fondi - stanziati in 170 milioni di euro per il 2020 anche per i lavoratori precari e non solo autonomi. Così concepita, la previsione escluderebbe di default tutti coloro che oggi versano i contributi alle casse previdenziali professionali, diverse dall’Inps, anche separate, come i giornalisti (Inpgi), gli avvocati (cassa forense), i commercialisti (Cndapc) e così via.

 

Come se le professioni ordinistiche fossero un universo indipendente e intoccato dalla crisi economica generata dalle misure di contenimento del virus e dovessero in qualche modo arrangiarsi da sé, almeno per ora. Certo, anche agli autonomi è concesso il congelamento delle tasse, posticipate a partire da 31 maggio 2020 - un orizzonte in realtà vicinissimo, anche se sarà possibile rateizzare fino a cinque mesi il dovuto. Ma anche questa previsione esclude dal sostegno diretto chi ad esempio abbia una partita Iva agevolata e già ora non versi Irpef né Iva ma non per questo può dirsi esente dai contraccolpi dello stop produttivo generale.

 

La stessa terminologia del decreto è pensata più per le attività commerciali e artigianali, indubbiamente massacrate da questo tzunami virologico, che non per i liberi professionisti. Lo dimostra il testo della norma che permette di bloccare per nove mesi - non più 18 come inizialmente paventato - il mutuo sulla prima casa. L’articolo che estende l’accesso al fondo di solidarietà sui mutui, o Fondo Gasparrini, anche alle partite Iva, infatti, parla - sempre nella versione fatta circolare nella bozza del decreto -  di accesso al fondo ai “lavoratori autonomi e ai liberi professionisti che autocertifichino” un calo del proprio fatturato superiore al 33% rispetto a quanto fatturato nel primo trimestre del 2019  “in conseguenza della chiusura o della restrizione della propria attività operata in attuazione delle disposizioni adottate dall’autorità competente per l’emergenza coronavirus”.

 

Una condizione che si applica benissimo a un parrucchiere o a un negozio, ma non a una professione: come dovrebbe dimostrare un avvocato la diminuzione della clientela in un così breve lasso di tempo? Quale elemento certifica l’impatto del coronavirus sul suo reddito quando la natura dell’attività di consulenza non sempre è definita a ore ed è anzi per definizione slegata dal tempo e connessa invece un progetto, a un obiettivo (es. ottenere sentenza di divorzio)? Un ragionamento che si può estendere anche ad altre attività intellettuali.

 

Anche la sospensione dell’obbligo di versamento delle ritenute d’acconto - che pesano sul 20% della parcella - per le partite Iva e le aziende che non fatturino oltre 400 mila euro l’anno, contiene un filtro mal digeribile dai professionisti. Che sono esentati “a condizione che nel mese precedente non abbiano sostenuto spese per prestazioni di lavoro dipendente o assimilato”. Una disposizione anche in questo caso concepita in base al principio del bastone e della carota, perché è difficile che  per il proprio lavoro, i liberi professionisti non si avvalgano di collaboratori o prestazioni di terzi per svolgere la propria attività.

 

Il paradosso più evidente, poi, riguarda i commercialisti che vivono tra l’incudine e il martello, dove l’incudine è la sospensione dei termini per il versamento delle tasse - attività che è alla base dei guadagni dei consulenti tributari - e il martello è l’articolo del decreto che non congela invece la scadenza per la presentazione del 730 precompilato (da presentare entro il 31 marzo). Una combo che di fatto costringe la categoria a lavorare - sono sempre i commercialisti, infatti, gli esperti deputati al controllo e alla comunicazione del 730, salvo casi in cui i cittadini abbiano le competenze per muoversi in autonomia nel ginepraio fiscale italiano - ma senza poter contare su adeguati indennizzi.

 

Manca ancora il testo definitivo, ma date le premesse e sondato anche l’umore di ordini professionali e categorie, è chiaro che queste prime misure siano fortemente sbilanciate, come del resto ci si attendeva. Impossibile costruire in pochi giorni ammortizzatori ad hoc che necessitano di anni di affinamento.

 

Lo dimostra il fatto che anche i lavoratori dipendenti, per quanto fortemente sostenuti, non abbiano davvero certezza di ottenere integrazioni salariali universali dalla manovra anti-coronavirus. C’è infatti una disposizione, confermata nel decreto finale, che riguarda l’approvazione della cassa integrativa in deroga per gli addetti di tutte quelle aziende che non possano a vario titolo accedere alle tutele previste dal decretone, come la sospensione o la riduzione dell’orario di lavoro. Per fornire sostegno anche a questi lavoratori, “le Regioni e Province autonome [...] possono riconoscere, in conseguenza dell’emergenza epidemiologica da COVID-19” trattamenti di cassa integrazione salariale in deroga ma “previo accordo che può essere concluso anche in via telematica con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale per i datori di lavoro che occupano più di cinque dipendenti”.

 

Per i sindacati sentiti dal Foglio, sottoporre l’erogazione delle prestazioni all’accordo sindacale non rallenterà le procedure di sostegno. Non per Corrado Baracchetti coordinatore nazionale per il mercato del lavoro di Cgil, che spiega: “La cassa in deroga è retroattiva al 23 febbraio, anche impiegando pochi giorni per la stipula di un accordo, i lavoratori saranno comunque tutelati e in ogni caso saltare questo passaggio rischia di lasciare troppa discrezionalità rispetto alla destinazione effettiva delle misure, con il risultato che molti lavoratori potrebbero non essere adeguatamente coperti”. Anche Ivana Veronese, segretaria confederale Uil, sostiene che trattandosi di soldi pubblici erogati alle imprese “sia preferibile conoscere a chi siano destinati, senza doverlo conoscere a posteriori”. “In ogni caso”, conferma la sindacalista, “abbiamo risorse e mezzi per garantire la stipula degli accordi in tempi brevi su tutto il territorio nazionale”. Tutelare i lavoratori, evitando che alcuni restino a bocca asciutta, è un obiettivo che deve fare i conti con l’assenza di tempo. “Aspettiamo di leggere bene tutto il provvedimento”, riassume Luigi Sbarra, segretario generale aggiunto Cisl. “Insieme a Cgil e Uil nei giorni scorsi abbiamo segnalato che,  consapevoli della straordinarietà della fase, andrebbero ridotte al minimo le tempistiche della procedura di consultazione sindacale, ed abbiamo proposto una durata di 3 giorni per la procedura di informativa ed esame congiunto”.

 

Da questo quadro restano però fuori le aziende con meno di cinque dipendenti. Qui il provvedimento non è mai stato chiaro e non si capisce in che modo le integrazioni salariali possano effettivamente essere applicate anche in assenza di un accordo sindacale. Forse, tramite un’informativa comunicata dalle aziende. Ma il rischio, paradossale, è che imprese medio-grandi in attesa della misura, attendano di più delle piccolissime aziende sottoposte a una procedura più snella.
Serviranno, insomma, note esplicative e circolari per fugare i dubbi interpretativi. Perché, nonostante lo sforzo immane di corpi intermedi ed esecutivo,  il decreto non può risolvere una volta per tutte le complessità strutturali del mercato del lavoro italiano. Non per i dipendenti, e per ora purtroppo nemmeno per le professioni ordinistiche lasciate più di altre alla mercé di un supplizio chiamato virus.

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