Marshall, chi era costui?
Storia del piano con il quale gli americani aiutarono i paesi sconfitti in guerra. Ora si invoca contro il coronavirus
Un piano Marshall contro la pandemia. E’ il mantra che in Italia corre di bocca in bocca. Un piano Marshall per l’Italia o per l’intera Europa? Erogato da chi? Dall’Unione europea è la risposta; alcuni dicono dalla Banca centrale, ma nell’un caso o nell’altro paghiamo anche noi pro quota. Il vero piano Marshall fu tutt’altro: sostanzialmente un dono da parte del paese vincitore ai paesi distrutti dalla guerra, una iniezione di denaro dall’esterno, per l’84 per cento a titolo gratuito. L’Erp, cioè lo European recovery plan, varato nel 1948, erogò circa 12,730 miliardi di dollari in tre anni, che al cambio attuale si avvicinerebbe a 128 miliardi (ma ancor oggi gli storici non sono in grado di stabilire l’ammontare esatto). La Gran Bretagna ha ottenuto la fetta maggiore (circa 3,3 miliardi pari al 26 per cento del totale) poi la Francia (2,3 miliardi di dollari) seguiti da Germania occidentale (1,5 miliardi) e Italia (1,2 miliardi). A proposito dell’auspicato piano europeo si sono sentiti i numeri più diversi: dai tremila miliardi evocati da Vincenzo Boccia, presidente della Confindustria, ai 100 miliardi dei quali ha parlato il Pd. Carlo Cottarelli – che certo di queste cose se ne intende visto che erogava prestiti per conto del Fondo monetario internazionale – ha proposto 36 miliardi per l’Italia erogati da Bruxelles con l’emissione di speciali titoli. Un indebitamento insomma, anche se su un mercato a bassi interessi e lunghi tempi di restituzione. Il governo italiano è arrivato a 25 miliardi di euro dopo essere salito da 3,6 a 7,5 miliardi, e forse non saranno sufficienti, anche perché non si tratta solo di iniettare moneta per oliare il sistema, ma di proteggere lavoro, redditi, produzione. E di che cosa avranno bisogno la Francia, la Spagna e la Germania se è vero come sostiene Angela Merkel che fino al 70 per cento dei tedeschi potranno essere infettati dal Covid-19? E’ davvero difficile oggi come oggi fare i conti.
A proposito dell’auspicato piano europeo si sono sentiti i numeri più diversi. Il governo italiano è arrivato intanto a 25 miliardi. “Gli Stati Uniti dovrebbero fare tutto quello che sono in grado di fare per aiutare il ritorno della naturale salute economica nel mondo”
La Bce ha riaperto il cassetto del quantitative easing, comprando titoli in cambio di denaro liquido, la via maestra visto che il costo del denaro è addirittura negativo. Sono 120 miliardi di euro, per il momento; troppo poco secondo le Borse che precipitano. La Federal Reserve ha ancora spazio per ridurre i tassi dopo il taglio “preventivo” dello 0,5 per cento, seguita dalla Banca d’Inghilterra. La Banca del Giappone continua stampare valuta, come fa anche quella cinese. La politica monetaria aiuta, ma non è da qui che verrà il sollievo. Sei economisti europei di primo piano (Agnès Bénassy-Quéré, Ramon Marimon, Jean Pisani-Ferry, Lucrezia Reichlin, Dirk Schoenmaker, Beatrice Weder di Mauro) hanno proposto un intervento anti-catastrofe diverso anche dalle misure prese per combattere la crisi del 2008-2010. L’effetto economico della pandemia combina un doppio choc, da offerta e da domanda, e si articola in quattro fasi: la prima cominciata in Cina ha spezzato la catena industriale; la seconda riguarda le ricadute settoriali; la terza è una crisi generale come nel caso dell’Italia; la quarta sarebbe la ripresa che può cominciare da maggio e giugno. Ogni fase ha bisogno di una risposta adeguata: sostegno al lavoro e cassa integrazione nella prima, liquidità abbondante nella seconda, nella terza misure di emergenza che vanno dal potenziamento della sanità alla sicurezza. Se la chiusura dell’Italia durerà un mese, è prevedibile che verrà perduta circa la metà dell’attività produttiva e il sostegno necessario potrebbe arrivare all’1,5 per cento del prodotto lordo (grosso modo i 25 miliardi annunciati dal governo). La fase 4 sarà, se possibile, ancor più complicata: affinché si avvii una vera ripresa, c’è bisogno di politiche fiscali consistenti con il sostegno parallelo della Banca centrale per evitare un blocco del credito a causa dell’aumento dei prestiti deteriorati. I sei economisti propongono che la Ue decida di detrarre tutte le spese aggiuntive dal patto di stabilità e di ricorrere a interventi straordinari coordinati a livello nazionale ed europeo, attingendo a ogni fondo già esistente. E’ questo il piano A; se non viene accolto non resta che il piano B, cioè l’intervento del meccanismo di salvataggio europeo per i paesi con l’acqua alla gola. Il primo dei quali sarebbe l’Italia. Tutto ciò non assomiglia granché al piano Marshall. Vediamo perché.
Gli Stati Uniti avevano erogato già aiuti, soprattutto alimentari e umanitari, con le misure varate da Henry Morgenthau, segretario al Tesoro di Franklin D. Roosevelt, che si aggiungevano ai sostegni dell’UnRra (United nations Relief and rehabilitation administration, istituita il 9 novembre del 1943 per assistere economicamente e civilmente i paesi usciti gravemente danneggiati dalla Seconda guerra mondiale (entrata a far parte dell’Onu nel 1945, è stata sciolta il 3 dicembre 1947). Ma la ripresa stentava. L’Inghilterra era a terra, la Germania a pezzi. L’Italia non se la cavava meglio: anche se l’apparato industriale era meno distrutto (i danni peggiori li avevano subiti la metalmeccanica e i trasporti), un cittadino su quattro si trovava senza lavoro, il reddito medio era caduto indietro di mezzo secolo in termini reali, mancavano i generi di prima necessità e le materie prime. “Grano e carbone” chiedeva il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. La svolta arrivò in gennaio quando il presidente americano Harry Truman nominò Segretario di Stato il generale George Marshall (capo di stato maggiore dell’esercito americano dal 1939 per tutta la guerra, il braccio militare di Roosevelt) il quale cominciò una trattativa con il suo pari sovietico Vyacheslav Molotov soprattutto sul destino della Germania. Stalin aveva scelto una linea punitiva e non intendeva sostenere la re-industrializzazione tedesca, atteggiamento simile a quello dagli inglesi subito dopo la vittoria, condiviso anche negli Usa, per esempio dallo stesso Morgenthau. Secondo Marshall, sostenuto da Truman, ripetere l’errore commesso dopo la Prima guerra mondiale sarebbe stato fatale. La cortina di ferro, come la chiamò Winston Churchill, non era ancora calata del tutto sull’Europa, ma Usa e Urss già incrociavano i ferri, mentre l’ambasciatore George Kennan elaborava la dottrina americana del contenimento. Il 5 marzo 1947, Marshall parlò all’Università di Harvard. “Gli Stati Uniti – esordì – dovrebbero fare tutto quello che sono in grado di fare per aiutare il ritorno della naturale salute economica nel mondo, senza la quale non ci può essere né stabilità né pace. La nostra politica non è rivolta contro nessun paese, ma contro la fame, la povertà, la disperazione e il caos”. E’ il “whatever it takes” al quale si è ispirato nel 2012 Mario Draghi. Chi oggi è capace di ripeterlo?
Quella di Marshall era ancora una proposta, aperta all’Urss che inglesi e francesi volevano tenere agganciata. Stalin e Molotov la respinsero imponendo agli stati dell’Europa orientale sotto il loro controllo (soprattutto Polonia e Cecoslovacchia), di fare altrettanto. Non furono facili nemmeno i negoziati tra i paesi destinatari degli aiuti. La Gran Bretagna insisteva che le fosse riconosciuto uno status particolare. Si formò un Comitato europeo per la cooperazione economica, primissimo nucleo delle successive istituzioni comunitarie, che chiese 22 miliardi di dollari. Truman li tagliò a 17 convinto che il Congresso, controllato dai repubblicani, avrebbe puntato i piedi. Ottenuto il via libera non senza fatica, il presidente firmò il 3 aprile 1948 l’Economic cooperation act che affidò a una speciale amministrazione (nota con l’acronimo Eca) la gestione del piano. Alla sua guida un manager, Paul Hoffman, dirigente della casa automobilistica Studebaker, il quale spiegò che l’obiettivo era non solo sostenere la ricostruzione, ma favorire “una integrazione economica con la formazione di un ampio mercato unico all’interno del quale sarebbero state spazzate via per sempre restrizioni quantitative ai movimenti di beni, barriere monetarie ai flussi di pagamenti e alla fine tutte le tariffe”. Insomma, si trattava di “creare un’area permanente di libero scambio comprendente 270 milioni di consumatori dell’Europa occidentale”.
Era il 1949, e si pose subito anche la questione delle monete, con la sterlina che aveva un ruolo predominante (il 36 per cento degli scambi mondiali era in valuta britannica) e il Fondo monetario internazionale, creato nel 1944 alla conferenza di Bretton Woods, che ancora non aveva attivato tutte le sue funzioni. Il numero due dell’Eca, Richard Bissel, propose una Intra-European Clearing Union, un pool di valute dotato di mezzo miliardo di dollari in base al quale ogni paese concedeva agli altri una linea di credito pari al 10 per cento del proprio scambio commerciale. I saldi negativi dovevano essere regolati con una sola operazione nei confronti dell’Unione considerata come un tutto. “L’unicità del sistema suggeriva l’adozione di un’unità di conto europea”, ha scritto Guido Carli, che nel 1950 divenne presidente della Uep. Nel duro, talvolta feroce scontro odierno sull’euro e le sorti della Ue, non fa male ricordare come e quando tutto è cominciato.
Fin dal 1946 Roma aveva bussato alle porte di Washington ottenendo aiuti con il contagocce. Si era distinta la Fiat che, grazie all’abilità e alle amicizie di Vittorio Valletta, aveva ottenuto 10 milioni di dollari dalla Bank of America, primo credito post-bellico all’industria tricolore. Nel 1947 il plenipotenziario degli Agnelli viene scelto da Alcide De Gasperi come una sorta di ambasciatore economico dell’Italia. Il capo del governo italiano si era recato a Washington nel gennaio di quell’anno, ma era stato accolto freddamente portando a casa una promessa: un prestito all’Italia di 100 milioni di dollari da parte della Export-Import-Bank. Davvero poca cosa. A quel punto entra in scena Valletta, ricorda Piero Bairati nella biografia del Professore, come veniva chiamato il gran capo della Fiat. Il 7 marzo fa tappa a Londra dove incontra il banchiere Charles Hambros, governatore della Banca d’Inghilterra. Atterrato a Washington si reca subito al Dipartimento di stato, si sposta a New York e a Wall Street, vede i vertici della Chase Manhattan Bank (che faceva capo ai Rockefeller) e delle principali banche d’affari, oltre a Henry Ford II. Poi via a San Francisco per un meeting con Amedeo Giannini, il fondatore della Bank of America, “in segno di riconoscenza”. Valletta precostituisce le condizioni affinché la Fiat diventi tra i principali beneficiati dei finanziamenti americani, quelli del piano Marshall e altri aggiuntivi, ma fa molto di più: riesce a mobilitare l’attenzione degli americani sul caso italiano – lo racconta Ugo Stille, fresco corrispondente del Corriere della Sera a Washington, e come ha confermato poi l’ambasciatore Egidio Ortona che aveva sollecitato i viaggi di Valletta. Quel ruolo lo ha poi svolto Gianni Agnelli, oggi non c’è più nessuno. Tornato a Roma, il Professore riferisce i risultati del suo viaggio direttamente a De Gasperi il quale il 30 aprile 1947 dichiara al Consiglio dei ministri: “L’America vuole trovare in noi la stabilità democratica. Il direttore della Fiat, l’ingegner Valletta, ora ritornato dagli Stati Uniti, mi ha confermato questa impressione. Ecco perché ritengo utile e necessario imbarcare qualche elemento tecnico-finanziario delle destre”. E’ l’inizio della svolta che porterà alla rottura con il Partito comunista e il Partito socialista.
La maggior parte degli aiuti arrivano dopo le elezioni del 18 aprile 1948, data che in Italia segna la vittoria della Dc. Valletta precostituisce le condizioni affinché la Fiat diventi tra i principali beneficiati dei finanziamenti americani
La maggior parte degli aiuti (compresi quelli alla Fiat) arriva dopo le elezioni del 18 aprile 1948, che segnano la vittoria della Democrazia cristiana. Valletta entra in rotta di collisione con la politica di stabilizzazione decisa da Luigi Einaudi, ministro del Bilancio nel nuovo governo De Gasperi. La sua posizione contraria alla stretta monetaria e all’austerità einaudiana coincide con le valutazioni critiche da parte degli americani, ispirati sostanzialmente da una impostazione keynesiana. La missione dell’Eca a Roma nel 1949 e il Country study sull’Italia del 1950 esprimono pubblicamente il loro dissenso chiedendo di privilegiare il rilancio dello sviluppo rispetto alla lotta all’inflazione. Le autorità italiane protestano contro “le interferenze estere”. Poi scoppia la guerra di Corea e un anno dopo il piano Marshall si esaurisce. In Italia è servito a comprare grano, carbone, acciaio, macchinari, petrolio. Oggi gli storici, anche quelli non liberali né liberisti, danno ragione a Einaudi: “La svolta monetaria del 1947 costituì il fondamento dello sviluppo senza precedenti sperimentato dall’Italia dal 1950 al 1973”, ha scritto Pierluigi Ciocca in “Ricchi per sempre?”. Concorsero però due scelte strategiche: la liberalizzazione degli scambi con l’estero e l’aumento della produttività che è la chiave della crescita, anzi della ricchezza delle nazioni.
Se vogliamo ricordare l’impatto economico dell’Erp, al di là del mito, non possiamo non notare che ha rappresentato appena il 3 per cento del prodotto lordo dei 18 paesi interessati e ha contribuito alla loro crescita nei tre anni per meno di mezzo punto percentuale. Gli Stati Uniti hanno continuato a finanziare l’Europa occidentale per almeno altri dieci anni, ma secondo molti storici ed economisti, più degli aiuti hanno contributo in modo determinante al miracolo economico post bellico l’apertura degli scambi commerciali e monetari. Non sono solo schegge della storia, perché tutto ciò parla molto al presente. I doni di zio Sam sono stati fondamentali per girare la chiavetta, ma il motore ha funzionato con la miscela del lavoro e del commercio internazionale.
Questa lezione vale anche per qualsiasi progetto straordinario di rilancio dopo la pandemia: chiudere i confini economici e fisici aggiunge catastrofe alla catastrofe. Oggi le fabbriche ci sono e continuano a funzionare. I salari vengono garantiti anche se subiranno dei tagli. I posti di lavoro non saranno cancellati grazie alla cassa integrazione. Abbiamo le macchine e abbiamo i maccheroni, per citare una battuta alla quale era affezionato Donato Menichella, governatore della Banca d’Italia (e lui sosteneva di preferire sempre i maccheroni). Da qui deve partire un piano che con quello di Marshall ha da spartire solo il suo potere evocativo, un progetto basato sulle condizioni del presente, non sulla nostalgia del passato.