Trump cerca il dialogo con l'Arabia Saudita per non perdere la guerra fredda del petrolio
La spirale innescata dal crollo dei prezzi rischia di mettere in ginocchio le principali compagnie petrolifere americane. Il presidente nomina un inviato speciale per negoziare con la casa reale saudita
Gli Stati Uniti cominciano a muoversi nel complicato scacchiere internazionale legato alla guerra dei prezzi del greggio che ha portato il barile a scendere sotto la soglia psicologica dei 30 dollari. La priorità per la Casa Bianca è ora quella di riavviare il dialogo con l’Arabia Saudita e per questo motivo il presidente Trump ha nominato un inviato speciale per negoziare con la casa reale saudita la difficile partita energetica. Si tratta di Victoria Coates che a Washington ricopriva il ruolo di senior advisor per il segretario all’Energia, Dan Brouillette, e in passato è stata anche il consigliere per la Sicurezza americana del senatore repubblicano Ted Cruz.
Come riferito dal Dipartimento all’energia statunitense la Coates – esperta anche di Iran – sarà nella capitale saudita per assicurare una presenza stabile e di alto profilo. A pochi mesi dalla sua possibile rielezione, Trump non vuole perdere altro tempo nel trovare un terreno comune con il suo principale alleato mediorientale per risolvere la tempesta del cheap oil che sta mettendo in ginocchio l’industria estrattiva nazionale, a partire da quella texana.
La mossa diplomatica di Washington fa seguito all’intervista rilasciata lunedì scorso a Bloomberg da Brouillette secondo cui gli Stati Uniti starebbero pensando ad una nuova alleanza del petrolio con l’Arabia Saudita per ridisegnare tutta la geopolitica del petrolio. “Non so se sarà presentata a livello formale come parte di un processo politici, ma certamente è una delle tante idee”, queste le parole pronunciate dal segretario all’Energia. Secondo il Wall Street Journal il Dipartimento all’energia starebbe cercando di convincere la Casa Bianca ad implementare gli sforzi verso Riad, al fine di spingere il paese arabo ad uscire dall’Opec, il principale cartello dei paesi produttori di greggio, e lavorare insieme agli Stati Uniti ad una nuova politica di stabilizzazione dei prezzi.
La spirale innescata dal crollo dei prezzi rischia di mettere in ginocchio le principali compagnie petrolifere americane, più o meno tutte le big oil company hanno annunciato ingenti tagli ai propri costi operativi e ai progetti d’investimento. La Chevron ha annunciato tagli per 4 miliardi di dollari, riducendo sensibilmente i propri piani di sviluppo nel bacino Permiano, il principale giacimento di shale gas (gas di scisto) degli Stati Uniti. Anche il gigante Exxon ha annunciato una sensibile riduzione dei propri costi e il possibile abbandono di alcuni progetti di espansione come quelli nel Mozambico. La pressione affinché Trump ponga fine alla guerra dei prezzi è dunque altissima.
Molto dipenderà anche dalla strategia di Mosca. Al momento il Cremlino non è intenzionato a dialogare formalmente con l’Arabia Saudita per ridurre l’output petrolifero, anzi, la svalutazione del rublo sta aiutando le compagnie petrolifere russe, principalmente Rosneft, a contenere le perdite sui costi e ad aumentare la produzione di greggio ai livelli di quelli sauditi. Infatti, se al momento la produzione totale della Saudi Aramco, la principale compagnia petrolifera saudita, si attesta sui 12 milioni di barili al giorno, la produzione di Rosneft, che si attesta sugli 11 milioni barili, potrebbe essere aumentata nei prossimi giorni di altri 500 mila barili di greggio al giorno. Qualche giorno fa il primo viceministro russo, Andrei Belousov, intervistato dall’agenzia Tass, ha puntato il dito contro i partner arabi, sostenendo come la caduta dei prezzi non possa essere addebitata all’atteggiamento russo sui mercati. Secondo Belousov, i tentativi di Mosca di proporre ai membri dell’Opec un'ulteriore estensione del taglio alla produzione petrolifera sono caduti nel vuoto proprio a causa delle resistenze dei membri arabi. Una situazione di stallo che un altro protagonista russo, come Igor Sechin, il capo azienda di Rosneft, aveva previsto già nel 2017, opponendosi all’adesione della Russia agli accordi Opec sui limiti alla produzione. Una scelta che gli aveva causato allora le critiche del presidente russo, Vladimir Putin. Ora Sechin è tornato ad essere tra i principali consiglieri di Putin nella guerra al petrolio, con l’obiettivo dichiarato di spingere gli Stati Uniti fuori il mercato portando i prezzi a livelli insostenibili per i produttori americani che hanno strutture operative e di costo difficilmente compatibili con il barile sui 20/25 dollari. Secondo il capo di Rosneft, il prezzo del greggio potrebbe tornare a fine anno sui 60 dollari se solo i produttori americani fossero spinti ad uscire dai mercati. Una nuova guerra fredda energetica che è appena cominciata.