Una exit strategy per il coronavirus
Quando arriverà la normalità? Più che al “dopo” pensiamo al “durante”, dice Renzi. Le risposte degli altri paesi
Milano. C’è un dopo ma c’è soprattutto un “durante”, ha detto ieri Matteo Renzi al Senato, e questo durante potrebbe durare anche due anni: bisogna imparare a renderlo vivo e vivibile, e a convivere con il coronavirus. Il leader di Italia Viva ha alcune proposte – un unico decreto d’aiuto all’economia negoziato assieme, per esempio – ma soprattutto vuole spostare il dibattito non più (o non soltanto) sulle misure di restrizione, su cui l’Italia è stata rigorosa e disciplinata, ma sul loro superamento. Invece di discutere su quali aziende devono restare chiuse, cerchiamo “un codice per farle riaprire”, ha detto Renzi, sintetizzando il senso del “durante”. L’Italia che per prima è stata colpita dall’epidemia per prima deve pensare a un piano di normalizzazione: gli inglesi lo definiscono “endgame”, il finale. Naturalmente hanno tutti fretta, questo tempo sospeso e meno produttivo ha effetti economici molto pesanti: la lotta al virus ha bisogno di tempo, ma il rallentamento ha effetti di lungo periodo enormi. Il più impaziente è Donald Trump che ha già annunciato la riapertura dell’America entro Pasqua: a guardare i dati sul mercato del lavoro pubblicato ieri si capisce perché. La flessibilità che rende l’America tanto dinamica in questa fase di progressiva paralisi ha espulso dal mercato del lavoro tre milioni di persone, un record storico – e come dicono virologi e commentatori: è soltanto l’inizio. Trump invece immagina di poter imporre l’endgame, e appare spaventoso: non soltanto perché potrebbe essere prematuro, ma anche perché scatenerebbe una competizione tra stato e stato. Laddove c’è bisogno di solidarietà e coordinamento, la voglia di uscirne per primi potrebbe avere l’esito opposto.
L’Unione europea sta cercando di pensare a una “exit strategy”, alle misure “necessarie per tornare a un funzionamento normale delle nostre società”. Il problema è: quando? Il premier britannico, Boris Johnson, aveva detto “dodici settimane” per uscire dalla crisi, ma ora la regola è: ci vuole la certezza che è possibile allentare l’isolamento. Ma la certezza non c’è, almeno da parte degli scienziati. Lothar Wieler, presidente del Koch Institut che controlla i numeri del contagio tedesco, ha detto a Politico Europe: “Non c’è una ricetta statistica, non c’è un manuale” in cui c’è scritto quando si può dare inizio alla normalità. In Francia, il comitato degli scienziati che consiglia Emmanuel Macron – comitato ampliato e ora molto più specializzato in crisi sanitarie – ha pubblicato un report in cui dice che l’isolamento deve durare almeno sei settimane, ma è un numero detto un po’ perché la politica chiede un arco temporale definito: il comitato non sa al momento nemmeno dire l’impatto delle nuove misure sui contagi e ha molti problemi a capire com’è la prospettiva per la tenuta degli ospedali, visto che sono gli stessi ospedali che devono fornire i dati, e ora non hanno tempo. Così anche il ministro della Sanità francese, Olivier Véran, ha dovuto dire: aspettiamo che la curva ci dica quando possiamo ripensare alla normalità. Il cancelliere austriaco, Sebastian Kurz, è stato l’unico ad aver fornito una misura: dobbiamo arrivare al punto in cui i contagi raddoppiano nel giro di quattordici giorni, dopo di che possiamo pensare a un allentamento.
Oltre alla difficoltà di capire qual è il momento giusto per introdurre una exit strategy, c’è anche il problema del coordinamento. La Cina, che fa ancora da riferimento almeno per quel che riguarda le tempistiche (il punto d’inizio lo ha posto il regime di Pechino arbitrariamente), ha annunciato che chiuderà i propri confini agli stranieri a partire da domani: l’isolamento ricomincia. Poiché ogni paese è in questo momento molto condizionato dalle decisioni degli altri paesi, l’iniziativa nazionale ha effetti anche sugli altri e questo potrebbe rallentare l’exit strategy di tutti – o attivare quella competizione distruttiva che vedremo all’opera tra gli stati americani. Di fronte a tante incognite, molti commentatori dicono che “l’endgame” non c’è, non si vede, forse hanno ragione gli scienziati più restrittivi: è finita soltanto quando arriva il vaccino. Ma la sfida non è il finale, è questo in cui dovremo imparare non tanto a scorgere il dopo, quanto a trovare un modo per convivere con il virus.