I “clandestini” da regolarizzare per far ripartire l'economia italiana
In Italia ci sono 600 mila “fantasmi” che sfuggono ai controlli sanitari e manca la manodopera in agricoltura. Cosa aspettiamo?
In Italia si aggira un esercito di almeno 600 mila invisibili, che sfugge a ogni prescrizione sanitaria, non ha accesso agli aiuti predisposti dal governo e non può dare alcun contributo alla ripresa dell’attività economica. Per lo stato sono dei fantasmi, ma nel mondo reale esistono in carne e ossa. Si tratta degli immigrati irregolari. Già prima c’erano ottime ragioni economiche e sociali per prendere atto della loro presenza nel nostro paese e procedere a una sanatoria. Esattamente come fecero i governi Berlusconi che, nel 2002 e nel 2006, con ministro dell’Interno Roberto Maroni, regolarizzarono rispettivamente 750 mila e 760 mila individui.
Alle ragioni di allora, tuttora valide, oggi se ne aggiunge un’altra di fondamentale importanza: com’è possibile garantire l’efficacia del lockdown se c’è più di mezzo milione di esseri umani – due città come Firenze e Venezia – senza un’occupazione, una residenza, un documento e sottratto a qualunque controllo sanitario? Sono persone che faticano a mettere assieme il pasto con la cena, che sono restie a chiedere aiuto, inclusa l’assistenza sanitaria, per timore di essere poi avviate verso un rimpatrio coatto, e che pertanto sono sconosciute alle autorità: vivono in condizioni di perenne disagio, sono esposte alla criminalità organizzata e sono attualmente anche un buco nero nella strategia di contenimento dell’epidemia da coronavirus.
Proprio per prevenire un’ulteriore diffusione del contagio, il Portogallo ha deciso di riconoscere il permesso di soggiorno a tutti coloro che, pur trovandosi sul territorio dello stato, ne siano sprovvisti. Al momento, in Portogallo si contano circa 12 mila casi di Covid-19 e 311 decessi: il coronavirus ha fatto finora circa 3 vittime ogni 100 mila abitanti. In Italia, quasi dieci volte tanto: 27 ogni 100 mila abitanti.
La gestione dei flussi migratori, nel nostro paese, è da almeno un decennio del tutto erratica. Il numero di permessi di soggiorno è sceso dal picco di quasi 600 mila nel 2010 a circa 200 mila all’anno nell’ultimo quinquennio. Se ci focalizziamo sui soli primi permessi per motivi di lavoro, secondo i dati ricostruiti dalla Fondazione Leone Moressa l’Italia è all’ultimo posto nell’Unione europea, con appena 0,23 ogni 100 abitanti, contro una media Ue di 1,73.
Anche Francia e Germania sono decisamente sotto la media, ma comunque appaiono assai più aperti di noi, con 0,51 e 0,83 permessi ogni mille abitanti, rispettivamente. Le quote d’ingresso di lavoratori non comunitari sono crollate da valori attorno ai 100 mila all’anno (seppure con una forte variabilità) fino al 2011, a meno di un quinto nel periodo successivo. Proprio il prosciugamento dei canali legali spiega l’alto numero di irregolari che, secondo la Fondazione Ismu, è grosso modo raddoppiato nell’ultimo decennio. I decreti sicurezza del primo governo Conte, cancellando i permessi di soggiorno per motivi umanitari, hanno ulteriormente gonfiato la sacca dei “clandestini”. Forse proprio perché il vero obiettivo politico non era risolvere il problema, ma aggravarlo.
Gli stranieri irregolari sono tipicamente persone low skilled (poco qualificate), che vengono occupate nei settori a più alta concentrazione di lavoro sommerso, quali edilizia (16 per cento di irregolarità accertate), agricoltura (23 per cento) e lavori domestici (58 per cento). Si tratta di impieghi che gli italiani sono restii ad accettare, vuoi per la tipologia di mansioni, vuoi per i bassi salari. Ma si tratta anche di ambiti che, nella nuova normalità del coronavirus, sono diventati assolutamente cruciali nell’organizzazione della società che abbiamo davanti. Non è un caso se, nel mondo delle rappresentanze datoriali, stanno cominciando ad alzarsi voci sempre più insistenti a favore di una regolarizzazione che, se da un lato consentirebbe ai migranti di emanciparsi dall’illegalità, dall’altro aiuterebbe le imprese a trovare la manodopera di cui hanno bisogno, garantire la continuità produttiva e proteggere i clienti e gli altri lavoratori dal rischio di infezioni.
Per esempio, nell’agricoltura, la sanatoria dei migranti è una delle principali richieste, assieme alla reintroduzione dei voucher, incomprensibilmente aboliti nel 2017, come ha illustrato Ornella Darova in uno studio dell’Istituto Bruno Leoni. La Cia (Confederazione italiana agricoltori) ha proposto un meccanismo che preveda il rilascio automatico del permesso di soggiorno all’atto dell’assunzione. Anche un’altra associazione di categoria come Confagricoltura insiste sulla questione, con motivazioni analoghe. E non si dica che la regolarizzazione serve ai “padroni” per “sfruttare” gli immigrati, perché è proprio nella clandestinità in cui sono costretti che gli immigrati vengono sfruttati.
All’interno del governo sembra esserci, quanto meno, un dibattito aperto. La ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha fatto delle caute aperture rispondendo a un’interrogazione del deputato di +Europa Riccardo Magi, che ha preso a cuore questa battaglia. La responsabile dell’Agricoltura, Teresa Bellanova, chiede da tempi non sospetti un provvedimento in tal senso a tutela dell’agricoltura italiana ma anche degli stessi migranti (e delle persone cui possono entrare in contatto) contro il rischio del Covid-19. Anche al netto del virus, la regolarizzazione produrrebbe enormi benefici economici e sociali: solo in termini di gettito fiscale, Enrico Di Pasquale e Chiara Tronchin hanno stimato (sotto ipotesi conservative) un gettito aggiuntivo pari ad almeno 1,2 miliardi di euro, più 150-300 milioni una tantum per la gestione delle pratiche. Per confronto, con queste risorse si potrebbe coprire gran parte del costo del bonus da 600 euro per gli autonomi, che – nella versione iniziale, poi incrementata a 800 euro – prevedeva uno stanziamento da 2,2 miliardi di euro.
Di fronte a questi numeri e all’emergenza sanitaria sottostante, è davvero incredibile il silenzio imbarazzato di gran parte della maggioranza (specie sul versante grillino). Ma è altrettanto stupefacente il niet di Giorgia Meloni e Matteo Salvini, che pure sono normalmente sensibili alle richieste del mondo agricolo. “I campi del paese si stanno svuotando e, per evitare il rischio del blocco degli approvvigionamenti di cibo fresco a supermercati e negozi di beni alimentari, è necessario intervenire immediatamente – ha dichiarato il presidente della Cia, Dino Scanavino –. A causa delle restrizioni imposte dalle misure per il contenimento del coronavirus, infatti, diversi prodotti rischiano di rimanere nei campi e nelle serre perché non ci sono abbastanza operatori per la raccolta”. Il rischio di una scarsità di prodotti agricoli è amplificato dalle misure protezionistiche assunte in altri paesi, come ad esempio i vincoli all’export del grano in Russia e Kazakistan, dell’olio di girasole in Serbia, del riso in Vietnam. E l’Italia non è un paese autosufficiente.
Forse è giunto il momento che i sovranisti facciano i conti con le loro contraddizioni: se vogliono la sovranità alimentare (o almeno non morire di fame) dovranno aprire al lavoro straniero regolare. Quanto agli altri, non si capisce perché siano contrari.