L'Arabia Saudita fa shopping fra le compagnie petrolifere europee
Secondo fonti di Borsa, il Fondo sovrano saudita (Pif), nei giorni scorsi ha acquistato quote della norvegese Equinor, dell’anglo-olandese Shell, della francese Total e dell’italiana Eni per un controvalore pari a un miliardo di dollari
Il crollo del prezzo del greggio sotto la soglia psicologica dei 30 dollari al barile, con la conseguente perdita del valore di Borsa delle principali compagnie petrolifere internazionali, ha riacceso l’interesse da parte dei grandi fondi sovrani verso le società energetiche europee.
Secondo quanto riferito da fonti di Borsa, nei giorni scorsi il Fondo sovrano saudita (Pif) ha rastrellato sul mercato quote di azioni della norvegese Equinor, dell’anglo-olandese Shell, della francese Total e dell’italiana Eni per un controvalore pari a un miliardo di dollari. La mossa avviene nel momento in cui il Regno saudita è impegnato nei complessi negoziati tra l’Opec – il principale cartello dei paesi produttori di greggio di cui Riad fa parte – la Russia e gli Stati Uniti per raggiungere un accordo stabile sulla riduzione della produzione petrolifera, la cui sovrabbondanza, insieme alla recessione avviata dalla pandemia, sta causando ingenti perdite all’industria del petrolio. Basti pensare che la sola Arabia Saudita, ad aprile, ha prodotto circa 12 milioni di barili di greggio al giorno, secondo le stime di Bloomberg.
Come emerge dall’analisi della Borsa di Oslo, tra il 30 marzo e il 6 aprile scorso, il Pif avrebbe acquisito quasi 15 milioni di azioni della compagnia norvegese Equinor – che ha siglato di recente un accordo di collaborazione con la Saipem per lo sviluppo una soluzione tecnologica per un parco di pannelli solari galleggianti adatti ad essere installati in prossimità della costa – mentre non è stato possibile ricostruire con esattezza lo stock di azioni della Total, di Eni e della Shell comprate dal fondo.
Il braccio finanziario in mano al principe saudita Mohammed bin Salman, che detiene riserve pari a 300 miliardi di dollari, è stato utilizzato come strumento principale nella politica di diversificazione economica dalle rendite petrolifere del Regno messa in campo con il piano Vision 2030, lanciato dal governo di Riad nel 2018. Per questo il Pif, negli ultimi due anni, si è allontanato dal mercato del greggio, per fare il suo ingresso nel settore dell’auto elettrica (Tesla), finanziario (Softbank), crocieristico (Carnival).
Ora il coronavirus e il prezzo del barile in caduta libera hanno trasformato le esigenze di portafoglio dei fondi sovrani legati alla produzione petrolifera. Solo qualche giorno fa, il fondo sovrano norvegese ha chiuso il primo trimestre 2020 con perdite per 113 miliardi di dollari, annunciando l’intenzione di rafforzare le proprie aziende energetiche nazionali. Dopo aver gestito da principale azionista la collocazione sulla Borsa di Riad di una quota pari all’1,7 per cento della compagnia petrolifera statale, la Saudi Aramco, incassando quasi 26 miliardi di dollari, a partire dall’inizio della diffusione del virus e della guerra sui prezzi del greggio anche il fondo saudita ha cambiato strategia, puntando a nuovi target per diversificare il proprio portafoglio, obiettivi contendibili come quelli legati agli asset petroliferi.
Basti pensare che, secondo i dati Reuters, la scorsa settimana le azioni della Equinor hanno registrato pesanti perdite, mentre, dall’inizio del 2020, Shell, Total ed Eni hanno rispettivamente perso il 35, il 31 e il 33 per cento del loro valore borsistico, mentre il Brent, il benchmark globale di riferimento del prezzo del petrolio, è sceso del 52%. Altri giganti come la British petroleum (Bp) o la Exxon, hanno annunciato tagli miliardari ai propri investimenti in esplorazioni petrolifere a causa del crollo della domanda di greggio degli ultimi mesi. La speranza è quella di vedere presto un rimbalzo. La bozza di accordo tra l’Opec e la Russia, che prevederebbe un taglio della produzione di 10 milioni di barili al giorno, è un primo segnale positivo verso la fuoriuscita di una crisi energetica profonda. Il presidente americano Donald Trump nei giorni scorsi aveva assicurato la disponibilità di Russia e Arabia Saudita a ridurre la produzione di 10-15 milioni di barili al giorno, ponendosi come artefice dell’accordo. Ma la Russia, per bocca del portavoce del Cremlino Dmitry Peskov, ha precisato che anche gli Stati Uniti, dove protagoniste sono società private e le leggi antitrust impediscono accordi di cartello, devono fare la loro parte. Anche Riad è stata richiamata ad una maggiore responsabilità da 50 parlamentari americani che, in una lettera al principe saudita, hanno condizionato il proseguimento della cooperazione economica e militare fra Washington e Riad al taglio della produzione di petrolio.