Ragioni per non fare gestire il dopo virus allo stato imprenditore
L’emergenza ci ricorda che un elevato livello di spesa non significa una migliore allocazione delle risorse. Idee per la ripresa
Il Covid19 si presenta come una minaccia diretta e indiretta alla vita delle persone: diretta, per tutti coloro che sfortunatamente ne sono stati vittima. Indiretta, perché le stesse misure intraprese per abbassare la curva epidemica hanno l’obiettivo di ridurre l’attività economica, per rendere più rarefatte le interazioni fra persone. Il rallentamento della produzione è la conseguenza desiderata, e intenzionale, delle scelte politiche intraprese, con un inevitabile effetto sul prodotto interno lordo e sul benessere delle persone.
La scelta del lockdown rappresenta un caso classico di applicazione del principio di precauzione: inevitabile, innanzi a un virus nuovo e le cui dinamiche restano in larga misure ignote. Proprio le importanti informazioni e conoscenze che scienziati di tutto il mondo stanno accumulando, giorno dopo giorno, sul virus dovrebbero consentire al governo di adattare anche la risposta italiana. La scelta di rallentare, quando non impedire, la produzione ha costi ingenti, che sarebbe opportuno smettere di sopportare quando possibile. Guardando alla contabilità nazionale, si può stimare che in Italia le attività bloccate valgano circa il 30 per cneto del PIL. Ma anche settori, imprese, attività non formalmente bloccate operano a regime ridotto. Non sappiamo ancora a quanto ammonterà la perdita di ricchezza registrata nel periodo di lock-down. Né sappiamo a che livello giungerà la disoccupazione. Senza dimenticare che alla perdita di posti nel mercato del lavoro ufficiale, occorrerà aggiungere la scomparsa di lavori nell’economia informale o sommersa, qui da noi particolarmente grande. Nessun Paese può andare avanti a lungo con gran parte della produzione bloccata. Non di soli biglietti di banca centrale vive l’uomo; ha bisogno di abiti per vestirsi, di cibo da mangiare, e di infinite altre cose che qualcuno deve produrre.
Per quanto le misure di sostegno possano essere estese e generose, sicuramente molte imprese cesseranno la propria attività. La struttura imprenditoriale italiana, fatta in larga misura di aziende di piccola dimensione, lascia immaginare che molti imprenditori potrebbero semplicemente non trovare la forza di riaprire.
Anche le imprese che sopravviveranno alla crisi troveranno innanzi a sé momenti difficili. Un ruolo importante nell’attività di qualunque imprenditore consiste nel costruire stabili relazioni di clientela con coloro che acquistano i suoi prodotti. Nel tempo la relazione si stabilizza sulla base di contratti scritti una volta per sempre, di un’esperienza che testimonia della affidabilità reciproca, riguardo ai tempi di consegna della merce, alla sua qualità, alla percentuale di errori, al rispetto dei termini di pagamento, e così via.
Una interruzione protratta dell’attività rischia di distruggere queste relazioni di clientela. L’acquirente è stato costretto – non avrebbe voluto – a cercarsi un nuovo fornitore. Ne ha valutato, magari con tentativi ed errori, l’affidabilità; ha scritto i nuovi contratti. Convincerlo a tornare indietro non sarà affatto scontato né facile. E’ stato già detto da più parti: far ripartire l’economia di un Paese non è come riaccendere un interruttore; assomiglia di più a riaccendere una centrale nucleare. Proprio per questa ragione, non è troppo presto per cominciare ad occuparsi della fase di ripartenza. Mai come in questo frangente bisognerà tenere ben presenti lati deboli e lati forti del nostro Paese; neutralizzando per quanto possibile i primi e sfruttando al massimo i secondi. Se è indubbio che ci sia bisogno, in questo momento, di un intervento emergenziale a vantaggio delle imprese e delle famiglie italiane, non possiamo per questo chiudere gli occhi sul modo in cui vengono impiegate le risorse spese in nome dell’emergenza. Sappiamo in particolare che esiste una tendenza di fondo nell’allocare le spese pubbliche su molti obiettivi, anziché su poche grandi priorità, per massimizzarne l’impatto non in termini di efficacia ma di consenso. Se gestiremo la ripresa in questo modo, così come stiamo gestendo la crisi, ancora una volta rischiamo di avere una recessione più profonda e più prolungata degli altri. L’attenzione dell’opinione pubblica è, oggi, comprensibilmente centrata sul dibattito europeo e su strumenti macro-economici che dovrebbero mitigare l’impatto economico del lock-down. Noi crediamo che ci sia almeno una verità che non verrà messa in discussione dall’epidemia: la ricchezza si crea nel settore privato e si crea nell’impresa.
Neutralizzare i lati deboli. Il primo dei nostri lati è deboli è scontato: siamo arrivati alla crisi con un livello del debito pubblico in rapporto alla ricchezza prodotta straordinariamente elevato. La crisi non sembra affatto qui da noi meno pesante che altrove, quindi la domanda di interventi pubblici non sarà più lieve. La cultura politica italiana, al contrario, tende ad avere un pregiudizio positivo nei confronti dell’intervento pubblico. Il dibattito macro di questi giorni si sofferma proprio sulla necessità di finanziare incrementi di spesa. E’ bene sapere che l’aggravio maggiore alle finanze pubbliche arriverà dal lato delle entrate, attraverso gli stabilizzatori automatici del ciclo (meno occupazione, meno redditi, meno profitti, quindi meno entrate fiscali). E’ pertanto prevedibile che usciremo dall’emergenza sanitaria con un debito ancora più elevato Un alto debito produce tanti interessi da pagare, e in misura più che proporzionale rispetto al di più di debito (il famigerato spread). L’Italia più di altri ha chiaramente convenienza a che siano resi disponibili strumenti finanziari in grado di mediare il costo del debito tra paesi diversi. Il veicolo oggi disponibile si chiama European Stability Mechanism – ESM. Faremmo bene a non metter troppi bastoni fra le ruote al suo procedere. L’argomentazione secondo la quale esso sarebbe stato concepito per fronteggiare shock asimmetrici, e questo è invece simmetrico, è inconsistente. Perché se è vero che l’epidemia da Covid-19 è comune, è altrettanto vero che essa colpisce i diversi Paesi con intensità diverse, legate alle condizioni di partenza di ciascuno, per esempio riguardo al peso del debito pubblico. Altrettanto chiaro è che occorre convincere i creditori vecchi e nuovi – chiunque essi siano – che il Tesoro sarà capace di rendere i soldi presi a prestito. Ciò richiede due impegni: a utilizzare ogni fondo aggiuntivo raccolto per contrastare gli effetti economici della pandemia, e a riportare – quando l’emergenza sarà finita – la finanza pubblica sotto controllo. Non è detto che questi due impegni siano sufficienti a contenere l’innalzamento del costo del debito. Ma è certo che senza questi impegni, qualunque sia la forma che assumerà l’indebitamento aggiuntivo, il suo costo crescerà fino a farsi insostenibile. L’altro punto di debolezza è rappresentato dal funzionamento dell’apparato pubblico. Le debolezze sono note: scuola, giustizia, sicurezza (forse, vista l’esperienza recente, occorrerebbe aggiungere la sanità; riguardo alla funzionalità informatica dell’INPS è meglio stendere un velo pietoso). Quel che prima era necessario, cioè migliorare l’efficienza in queste aree dell’intervento pubblico, ora diviene indispensabile. L’emergenza ha visto reagire nello stesso modo Paesi con un diverso livello di spesa pubblica rispetto al PIL. Non è chiaro che Paesi con spesa più elevata (Italia, Francia, Giappone) abbiano reagito con più efficacia di Paesi con spesa meno elevata (Corea del Sud, Taiwan, Stati Uniti). L’emergenza semmai ci ricorda che un elevato livello di spesa pubblica non significa, ipso facto, una migliore allocazione delle risorse.
Sfruttare i lati forti. Il risparmio privato. Le famiglie italiane godono di un elevato livello della ricchezza netta. Essa è pari quasi ad otto volte e mezza il reddito lordo disponibile; per fare qualche esempio, in Francia e nel Regno Unito lo stesso rapporto è inferiore ad otto, negli USA e in Germania rispettivamente appena superiore a sette e a sei (cfr. Banca d’Italia e ISTAT, La ricchezza delle famiglie e delle società non finanziarie italiane 2005-2017, 9 maggio 2019). L’elevato livello del risparmio privato viene spesso evocato nel dibattito pubblico, prefigurandone una sorta di confisca da parte del governo italiano, per stabilizzare “con un taglio netto” i livelli di indebitamento. Mai come oggi, una tale soluzione, che passa per un’imposta patrimoniale, appare pericolosa, anche in virtù del fatto che l’emergenza sanitaria e il lockdown hanno effetti anche sulla tenuta sociale del Paese e, per assurdo, proprio delle sue aree economicamente più forti, ad oggi le più colpite.
E’ probabile che il risparmio italiano dovrà comunque pagare dazio alla crisi. Infatti una situazione di distruzione delle filiere produttive internazionali, rallentamento della produzione e quindi scarsità di beni da un lato, potenti iniezioni di liquidità dall’altro, sembra il prodromo di una grande inflazione inattesa. La tentazione di una ventata inflazionistica limitata nel tempo e controllata (ammesso che esistano ventate inflazionistiche di questo tipo) verrà a molti. E’ pertanto prevedibile che le tensioni interne all’area euro siano destinate ad aumentare Ma se c’è qualcuno in Europa e nel mondo che verrebbe particolarmente danneggiato da una fiammata inflazionistica sono proprio i cittadini italiani. Occorre invece coniugare questa abbondanza di risparmio privato con l’altro punto di forza nazionale, la vasta presenza di una capacità imprenditoriale diffusa. Ciò significa favorire il fluire del risparmio verso le imprese. Oggi il sistema fiscale è disegnato in modo tale da favorire il flusso del risparmio privato verso lo Stato, attraverso aliquote fiscali particolarmente favorevoli (12,5%). Al contrario, il flusso verso le imprese è fortemente scoraggiato, attraverso aliquote fiscali – sulle rendite finanziarie e sui capital gains – particolarmente elevate (26%). Questo sistema andrebbe rovesciato, riconoscendo un trattamento di favore a quei risparmiatori che impiegano direttamente i propri fondi acquistando passività delle imprese (in forma di debiti o di equity), e non già a coloro che li prestano allo Stato. Purtroppo sembra essere stata scelta, non solo in Italia, una strada diversa: quella che attribuisce allo Stato il ruolo di far pervenire risorse finanziarie alle imprese (almeno nella forma di concessione di garanzie), continuando a penalizzare i flussi privati. E’ evidente che per le imprese più piccole il ricorso al mercato, nella forma di emissione di titoli di debito o di azioni, non è praticabile. Ma in questi casi un diverso trattamento fiscale potrebbe incentivare lo stesso imprenditore a sovvenire la propria impresa, riconoscendogli un trattamento fiscale di forte favore. Tutto ciò dovrà essere inserito nel quadro di una vera riforma che concentri la fiscalità di impresa sugli utili distribuiti e riequilibri il trattamento fiscale delle attività finanziarie. In questo quadro diviene ragionevole evitare che l’avvio della ripresa economica sia appesantito dal carico dei debiti fiscali pregressi.
L’imprenditorialità diffusa. La nostra piccola e media impresa ha dimostrato una straordinaria capacità di adeguarsi alle caratteristiche mutevoli e frammentate della domanda. Questa capacità può costituire uno straordinario atout nella fase che si apre. Non è affatto detto che tutto tornerà come prima. I comportamenti dei consumatori potranno cambiare. Le direttrici dei traffici potranno subire mutamenti in relazione a nuovi colli di bottiglia logistici, sanitari, politici. Lo stesso lungo periodo di restrizione in casa attraversato da molte persone potrà aver fatto cambiare la loro percezione dei propri bisogni. E’ assolutamente necessario che la piccola e media impresa italiana possa competere nella nuova situazione senza un braccio legato dietro la schiena. Purtroppo la promessa di semplificazioni e sburocratizzazioni è, in Italia, politicamente usurata, essendo stata, di volta in volta, al centro dei programmi di governi di destra e di sinistra, senza mai sortire effetti risolutivi. La prima questione è il mercato del lavoro. Dopo le riforme introdotte negli anni ’90, durante i quali i contratti di lavoro disponibili si erano moltiplicati e diversificati, gli anni più recenti hanno visto un tentativo di cucire un vestito unico per tutte le taglie. Questo è stato il contratto a tutele crescenti, concepito per sostituire tutti gli altri. Quali che siano i meriti di quella scelta, soprattutto in una situazione di crisi che colpisce in modo diversificato risulta evidente che le esigenze di imprese e lavoratori sono frammentate e mutevoli anch’esse, come le caratteristiche della domanda. Occorre rendere a lavoratori e imprese la libertà di contrarre sul mercato del lavoro, senza camicie di forza. A questo scopo occorre ampliare in modo considerevole lo spazio che i contratti nazionali lasciano libero per la contrattazione a livello territoriale e di singola impresa. In generale, i tempi della ripresa saranno strettamente legati al grado di flessibilità del sistema. Le nuove richieste di disoccupazione avanzate negli USA (dieci milioni nelle ultime due settimane) vanno valutate tenendo conto quando l’ ‘economia riprenderà a camminare la stessa flessibilità funzionerà in senso opposto garantendo, come è accaduto dopo la crisi finanziaria del 2007-2008. La Germania sta puntando molto sul lavoro a tempo parziale; noi sulla CIG straordinaria; nel primo caso l’impresa vive sia pure con un ventilatore polmonare, nel secondo cessa di respirare e andrà, se si potrà, rianimata. L’altro fattore che mina la capacità di competere e di innovare delle PMI italiane è il rapporto con una burocrazia spesso soffocante, imprevedibile nelle proprie decisioni, lenta nel decidere. Come invertire in modo radicale il rapporto fra imprese e amministrazione? Occorre generalizzare il meccanismo di interpello, a suo tempo introdotto nella materia fiscale e anche lì purtroppo mortificato dalle scelte successive. Ciascuna impresa che voglia intraprendere una propria attività, o modificare il proprio stabilimento, o comunque che abbia bisogno di un permesso, una autorizzazione, una certificazione, un qualunque atto amministrativo, esponga il proprio problema e la propria ipotesi di soluzione; l’amministrazione interessata ha trenta giorni per rispondere sì o per fornire un no motivato. In assenza di risposta il comportamento sottoposto con l’interpello dall’impresa si considera lecito. Né l’impresa deve farsi carico della individuazione dell’amministrazione competente. Essa invia il proprio interpello a un ufficio pubblico che svolge la funzione di smistamento tra le amministrazioni interessate.
No al ritorno dello stato imprenditore. Nei giorni più caldi dell’emergenza, è diventato vieppiù evidente come la centralizzazione degli acquisti da parte dello Stato, attraverso Consip, rappresenti un modello fallace. Lo Stato è parso lento e carente nei suoi interventi a sostegno degli ospedali e dell’attrezzamento di nuovi, imprescindibili posti letto in terapia intensiva. Non è una questione di stanziamenti: infatti sono stati predisposti interventi per un valore complessivo rilevante, che aumenta di giorno in giorno con il susseguirsi dei decreti legge, probabilmente coerenti con le necessità reali. E’ una questione di prassi e strumenti, che attiene i problemi cognitivi delle grandi organizzazioni nel rapportarsi con questioni sempre localizzate e di dettaglio. Per questo, sarebbe un errore straordinario utilizzare la crisi per allargare l’area dell’impresa a controllo o a partecipazione pubblica, magari andando incontro alla tentazione di qualche imprenditorie di mollare tutto e consegnare le chiavi allo Stato. L’impresa a partecipazione pubblica distorce il mercato per il solo fatto di esistere. Quella imprenditorialità diffusa che è una ricchezza italiana può affrontare molte difficoltà. Ma se proprio oggi, dopo tutti i problemi che le sta già causando il Coronavirus, le aggiungiamo la sfida di doversi confrontare con imprese para-pubbliche che alterano il mercato del credito, il mercato del lavoro, addirittura il quadro della regolamentazione, siamo sicuri di stare determinandone l’eclissi. Ancor peggio sarebbe se lo Stato volesse utilizzare la situazione di difficoltà nella quale – a causa dell’epidemia e non di loro errori – si trovano molte imprese italiane per sottrarle al controllo dei loro legittimi proprietari. Che lo stato risarcisca i danni di guerra. Non utilizzi i danni della guerra per espropriare i legittimi proprietari. Così fanno gli strozzini, non lo Stato di diritto.
Natale D’Amico, Alessandro De Nicola, Alberto Mingardi, Nicola Rossi