Cosa aspettarsi dalla nuova Confindustria
Fase due per le imprese. La liquidità da trovare, i debiti da gestire, i piccoli da far crescere
Carlo Bonomi, leader di Assolombarda, è stato designato ieri presidente di Confindustria con 123 voti contro i 60 di Licia Mattioli. Scrutinio virtuale e esito da tempo scontato. In attesa della ratifica dell’assemblea del 20 maggio, Bonomi ha anticipato qualcosa della sua presidenza: “Dobbiamo immediatamente portare la posizione di Confindustria su tutti i tavoli necessari rispetto a una classe politica molto smarrita, che non ha idea della strada che deve percorrere il nostro paese”. Bonomi è ovviamente per la riapertura, con ovvi distinguo: “Far ripartire le produzioni ma evitare una seconda ondata di contagio. La voragine del Pil è tremenda, però è una grande occasione per cambiare l’Italia. Fare indebitare le imprese non è la strada giusta anche perché l’accesso alla liquidità non è immediato”. Allargando il campo, ha aggiunto: “La politica ci ha esposto ad un ritorno del pregiudizio anti-industriale. Non pensavo di sentir più l’ingiuria che le imprese sono indifferenti alla vita dei propri collaboratori. Credo che dobbiamo rispondere al sindacato con assoluta fermezza”.
C’è molto della vis polemica di Bonomi; il quale non è erede diretto della dinastia protagonista della finanza milanese dei decenni passati, mentre è certo espressione dell’establishment meneghino dei Tronchetti Provera, dei Recchi, dei Bracco, con un buon sostegno anche a Roma. La sua azienda, la Synopo, è un po’ simbolo di gran parte dell’imprenditoria italiana: innovativa in quanto opera nel biomedicale, ma piccola. Che è la situazione del 95 per cento delle imprese di Confindustria.
Se Bonomi è convinto, come giusto, che il prossimo calo del pil – stimato dal Fondo monetario internazionale del 9,1 per cento nel 2020, peggiore performance europea dopo la Grecia, con ripresa del 4,8 nel 2021 – pur tremendo sia un’occasione per cambiare l’Italia, dovrà anche guardare all’interno della sua organizzazione afflitta da nanismo, frammentazione (di dimensioni e di interessi) e quindi di minore capacità di accesso al credito. Dall’indagine Istat del 2019 emerge che l’Italia è sì tra i paesi europei con maggior tasso di imprenditorialità – 72,4 imprese ogni mille abitanti contro la media Ue di 47,8 – ma con una dimensione sotto i 4 addetti rispetto alla media di 5,8. Dunque se fare indebitare le imprese non è la strada giusta, è vero anche che le moltissime categorie imprenditoriali chiedono al governo di aprire i cordoni del credito, quindi di indebitarsi. E questo non disponendo né di liquidità interna né di accesso al mercato dei capitali.
All’estero il momento non è molto diverso, con una differenza: le piccole imprese italiane fino a 10 dipendenti sono il triplo che in Germania, che egualmente ha il triplo di aziende con oltre 250 dipendenti. Solo il 2,34 per cento delle imprese italiane hanno più di 50 lavoratori, contro il 10 per cento in Germania e il 3,22 in Francia. Il gap di dimensioni si rispecchia fedelmente nella competitività. In questa situazione i due principali partner dell’Italia hanno più facilmente messo in campo le misure di sostegno, 820 miliardi di garanzie pubbliche in Germania e 300 in Francia. Altre cifre fotografano la differenza: a fine 2019 la capitalizzazione di piazza Affari è salita a 642 miliardi di euro; nel 2018 quella di Londra era di 43.800 miliardi di dollari; Euronext (i 1.300 maggiori titoli di Paesi Bassi, Belgio, Francia, Portogallo, Olanda e Regno Unito) di 43.600 miliardi; Francoforte di 22.200 miliardi.
È giusto che Bonomi alzi la voce con il governo per sedere al tavolo della ripartenza assieme alla miriade di tecnici. Ed è giusto denunciare il clima anti-industriale. Però ha la responsabilità di chiamare le cose con nomi e cognomi. Nel 2019 guidò il fronte imprenditoriale padano contro il blocco alla Tav attuato allora dai 5 stelle. Ma non additò esplicitamente l’altro partner gialloverde, la Lega di Matteo Salvini. Anche ora il problema principale dell’Italia è di non restare isolata dall’Europa. Ancora il Fmi prevede che il nostro debito salirà nel 2020 al 155 per cento del Pil; a distanza seguono Francia (115) e Spagna (113), mentre la Germania avrà un debito del 68,7 per cento. Queste differenze si rifletteranno sul credito interno; e torna attuale la denuncia del 2012 sulla concorrenza delle vendite a rate delle auto tedesche rispetto a quelle italiane. La fece Sergio Marchionne, dopo aver lasciato la Confindustria. Poi entrò in azione in bazooka di Mario Draghi. Usufruire di tutti gli strumenti utili in discussione a Bruxelles, a partire dalla linea di credito pro-Covid del Mes a interessi migliori dei Btp, anziché fare barricate ideologiche, è essenziale. Come per la Tav ci si aspetta da Bonomi che dica con chiarezza chi lo vuole e chi no.