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La prossima crisi

Paola Peduzzi

Il dibattito sulla diseguaglianza è di nuovo qui, e anche con una mappa. Appunti per non trovarsi impreparati

Milano. La diseguaglianza sarà “la prossima pandemia”, ha scritto Charlie Cooper su Politico Europe, facendoci fare un passo in avanti, oltre le misure per aprire e chiudere i paesi, oltre il dilemma tra salute ed economia, oltre i consigli contingenti delle task force. Prendete le scuole, dice Cooper, che ha sotto gli occhi soprattutto il Regno Unito dove lavora. Se le scuole non riaprono, o riaprono con orari modificati e mantenendo la didattica a distanza (questa è la formula per ora adottata negli altri paesi che riportano gli studenti in classe), le famiglie più povere saranno quelle che ne soffriranno di più. Ma il danno più grave è un altro ed è sugli scolari stessi, cioè sulle prossime generazioni: molti semplicemente smetteranno di andare a scuola. La diseguaglianza sociale crescerà sempre più, per non parlare di quella a livello internazionale: immaginate come può funzionare il distanziamento sociale in un campo profughi o in uno slum. Quando arriverà il vaccino, poi, le disparità cresceranno ulteriormente perché lo sappiamo fin da ora che la distribuzione non sarà uguale per tutti.

 

Di analisi come quelle di Cooper ce ne sono molte: tutte le rilevazioni mostrano anche nella demografia del contagio una crescita delle diseguaglianze. Il patto economico-sociale che è esistito fino a ora potrebbe presto non valere più: la prossima sfida per la politica è costruirne uno nuovo e credibile. Il timore è evidente: se oggi i movimenti populisti non riescono a imporsi – la paura del virus è più grande di qualsiasi paura creata e cavalcata dai populisti – potrebbero farlo domani, quando nella nuova normalità, qualsiasi essa sarà, ci sarà un grande scontento da gestire. L’abbiamo già visto accadere con la crisi del 2009: molti esperti sostengono che lo choc della pandemia sia molto più potente e duraturo, e i dati, soprattutto quelli sulla perdita del lavoro, sembrano confermarlo. Bob Reich, ex ministro del Lavoro dell’Amministrazione Clinton poi spostatosi molto più a sinistra (tifava Bernie Sanders prima del suo ritiro) e gran studioso della diseguaglianza, ha spiegato che il Covid-19 ha creato nuove classi sociali.

 

Reich parla dell’America, ma la sua analisi non suona poi così lontana. Individua quattro classi sociali. Gli essenziali, circa il 30 per cento della forza lavoro, sono quelli che hanno continuato a lavorare durante la pandemia ma le loro condizioni di lavoro non sono migliorate: se non avevano una copertura sanitaria, per dire, non ce l’hanno nemmeno oggi anche se sono stati esposti a un rischio elevato. Per non parlare degli aiuti per i figli, ancora più utili considerando che le scuole sono chiuse. Poi ci sono gli “unpaid”, quelli che non ricevono stipendio, che – dice Reich – “sono in numero superiore rispetto ai disoccupati”, che pure come sappiamo crescono di cinque milioni almeno ogni settimana. Gli “unpaid” sono in licenza perché non possono lavorare o hanno rinunciato allo stipendio facendosi promettere – ma poi chissà se sarà vero – di ricominciare a fine emergenza. Secondo una ricerca di Pew, gli “unpaid” hanno in media una capacità di gestire le spese base che dura tre mesi: uno e mezzo è già andato. Ci sono poi “i dimenticati”, quelli che non possono nemmeno applicare le misure minime di contenimento del virus, come il distanziamento sociale: li conosciamo anche noi, vivono nelle carceri, nei dormitori dei braccianti, nelle strade. Si salvano, in questa classificazione delle nuove classi sociali e delle nuove diseguaglianze, i “remotes”, quelli che possono lavorare da remoto, “sono ansiosi o non hanno più orari”, dice Reich, ma sono quelli che stanno meglio.

  

Reich non offre soluzioni, ma la sua mappa è utile per comprendere l’impatto sociale della pandemia, di cui abbiamo già avuto un assaggio ma per la quale sembriamo ancora molto impreparati. Ma per questa crisi l’alibi della sorpresa non ci sarà e la domanda di buon senso alle élite non è per sempre, soprattutto se non si offre una risposta.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi