Europa, aziende, stato. Guida ragionata sul lavoro che sarà
L’uso della tecnologia, gli spazi negli uffici, l’innovazione che manca, gli aiuti che ci saranno. Un girotondo
Sure.
Questa volta la Commissione europea ha scelto un termine inglese facile e gradevole da pronunciare – e, soprattutto, con un significato (“sicuro”) capace di evocare subito un concetto di solidarietà, di protezione – per dare un nome allo strumento che dovrà combattere la disoccupazione provocata dalla crisi Covid. Un fondo con scopi simili fu attivato dall’Unione europea nel 2011 ma il motivo per cui in tanti non ne ricordano neanche l’esistenza – oltre al fatto che è stato utilizzato pochissime volte in Italia – è anche perché fu etichettato con una sigla (Egf, European globalisation fund) molto meno empatica di Sure. “Non se ne parla perché non c’è stata controversia, ma è un passaggio storico. E’ il più grande progetto sociale europeo”, ha twittato Enrico Letta dopo che il Consiglio Ue del 23 aprile ha messo in campo Sure come uno dei quattro pilastri della strategia anti covid, con una dotazione di 100 miliardi e 25 miliardi di garanzie fornite dagli stati. “In realtà di questo strumento si sa ancora molto poco, comprese le condizioni per l’erogazione dei finanziamenti che si presume saranno molto favorevoli altrimenti non si capisce perché il governo italiano non debba continuare a finanziare le politiche per il lavoro con il debito pubblico come sta facendo”, dice al Foglio Maurizio Del Conte, ex presidente dell’Anpal, l’Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro e professore di diritto del Lavoro all’Università Bocconi – Voglio dire che questo fondo sarà realmente utile all’Italia se avrà un costo inferiore rispetto ad altre fonti di finanziamento in deficit come l’emissione di btp che in questa fase può contare sul paracadute Bce. Ma a prescindere da questo aspetto, credo che si potrebbe partire proprio da Sure per immaginare un nuovo assetto del mondo del lavoro nella fase tre”.
Una grande Cig europea.
Nello schema abbozzato dalla Commissione Ue si dice che il fondo Sure dovrà aiutare gli stati a “proteggere i posti di lavoro e i lavoratori che risentono della pandemia coronavirus” e che proprio per questo il fondo “è una forte espressione di solidarietà”. Ma come funziona? Gli stati potranno richiedere assistenza finanziaria alla Commissione tramite Sure per ridurre l’orario di lavoro delle aziende evitando gli esuberi e aiutare gli autonomi. “E’ come una specie di grande cassa integrazione europea che trae spunto proprio dal modello italiano – prosegue Del Conte – Nei paesi nord europei gli ammortizzatori sociali sono fondati sui sussidi al reddito per chi resta senza occupazione e su periodi di formazione per la riconversione in altre mansioni. Da noi, invece, si è sempre partiti dall’idea che il posto di lavoro vada congelato in attesa che l’azienda si riprenda, un sistema che ha pregi e difetti ma che mai come in questo caso può rappresentare il miglior modello di riferimento a livello europeo perché quello del Covid19 è uno choc esogeno di breve durata che non ha compromesso la capacità produttiva delle aziende e la loro possibilità di ripartire”.
Molto probabile, però, che venga lasciato agli stati la libertà di adattare Sure ai livelli nazionali di reddito, considerato che il 75 per cento dell’Italia, entro il limite di circa 1400 euro mensili, è uno standard adatto alla Spagna ma non, per esempio, alla Germania. “Per come la immagino io, la ripartenza dovrà basarsi sulla netta divisione tra politiche di contrasto alla povertà, attraverso sussidi che possiamo chiamare reddito di emergenza o cose simili, e politiche attive per il lavoro. Uno dei grandi equivoci del reddito di cittadinanza è stato proprio di voler fare entrambe le cose nello stesso momento: per il futuro non si può immaginare lo stesso percorso per una persona disoccupata da anni una che ha appena perso il lavoro per via del Covid”.
Quand’era presidente dell’Anpal, agenzia che ha contribuito a fondare e che ha lasciato a inizio 2019 nelle mani del pentastellato Domenico Parisi dopo un periodo di frizioni con il governo gialloverde, il professor Del Conte ha provato varie volte a spiegare la necessità di un approccio differenziato che ritiene ancora più necessario alla luce della crisi attuale che, secondo l’Agenzia per il lavoro delle Nazioni Unite potrebbe creare 25 milioni di disoccupati nel mondo. “E’ vero, avremo una grave perdita di posti di lavoro, ma si registra già una domanda non soddisfatta di addetti in settori in forte crescita come sanità, intesa in senso ampio, logistica, grande distribuzione, digitale. Sarebbe, quindi, opportuno creare percorsi rapidi di riconversione professionale, come sta facendo la Norvegia dove stuart e assistenti di volo, che già hanno dimestichezza con la cura delle persone, sono stati adibiti a servizi sanitari salvando migliaia di posti di lavoro delle compagnie aree ferme”. Prendiamo la sanificazione degli ambienti. L’Afol l’agenzia di formazione e accompagnamento al lavoro della città metropolitana di Milano, oggi presieduta da Del Conte, sta valutando, per esempio, la riconversione di un gran numero di risorse umane in questo settore destinato ad esplodere con la riapertura degli uffici.
La nuova economia basata sulla distanza fisica.
Secondo le rilevazioni di Adecco Italia, a fine marzo l’aumento delle richieste in ambito sanitario è andato ben oltre medici e infermieri estendendosi ad addetti per il settore chimico e farmaceutico per la produzione di disinfettanti e mascherine (più 40 per cento rispetto a prima dell’emergenza). Parallelamente, è aumenta la domanda di personale delle aziende del mondo della grande distribuzione organizzata, dai magazzinieri per preparare la spesa on line agli addetti al trasporto (più 50 per cento), della logistica e delle attività legate all’e-commerce (più 40 per cento). E la richiesta baby-sitter è raddoppiata. Insomma, suggeriscono gli esperti, se proprio non sarà possibile una piena compensazione tra i posti che si perderanno e quelli che si creeranno bisognerebbe almeno provare ad adattare il mercato del lavoro alle nuove condizioni, che hanno cambiato anche il modo di lavorare. Non è un caso che i tre colossi mondiali di selezione e fornitura di personale – Adecco, Manpower e Randstad, abbiano dato vita a un’alleanza per preparare insieme alle aziende il ritorno a “una nuova normalità” in cui i protocolli per la salute e la sicurezza dovranno essere aggiornati per la temporanea “economia basata sulla distanza fisica”. L’amministratore delegato di Adecco Italia, Andrea Malacrida, che si appresta a riaprire tutte le filiali italiane, compresa quella di Codogno, avverte: “Dalle aziende arriva non solo la richiesta di nuovi profili professionali, ma anche una richiesta di aiuto su come tornare a produrre e come aiutare i lavoratori ad affrontare il problema del rientro affinché questi non sentano di dover sacrificare la propria sicurezza per una garanzia finanziaria”. Nella fase uno, In Italia come in altri paesi, sul campo sono rimasti solo medici e infermieri, operai di alcune filiere produttive e addetti di servizi indispensabili. Per tutti gli altri c’è stato il lockdown con la casa trasformata d’improvviso in ufficio, una dimensione che nel nostro paese ha riguardato almeno 6 milioni di persone, a cui si aggiungono sei su dieci addetti dell’industria che per quasi due mesi non sono andati a lavorare. La ripartenza, per quanto graduale, non potrà non risentire di questa esperienza.
Come una rivoluzione industriale.
“Questa trasformazione è paragonabile alla rivoluzione industriale, in cui la dimora e il luogo di lavoro si divisero nettamente – osserva Mauro Magatti, economista e sociologo dell’Università Cattolica – in questo periodo sto incontrando diversi imprenditori e mi chiedono tutti la stessa cosa: come si gestisce il ritorno in ufficio? E non parlo solo di misure di sicurezza, di disinfettanti, mascherine e divisione su turni, ma di un ripensamento dei luoghi, dei contratti, delle funzioni e della formazione. Stiamo tutti riflettendo sulle potenzialità che potrebbe offrire un fondo europeo come Sure per ridisegnare un nuovo modello produttivo che riduca spostamenti e stress e allo stesso tempo aiuti il distanziamento nei casi di nuove emergenze. In fondo, abbiamo visto anche aspetti positivi come le riduzione del traffico e dell’inquinamento e io sono tra coloro che crede che in questo disastro sia emerso un potenziale che dovrebbe essere valorizzato”.
Per Magatti dopo la gestione “tecnica” della fase due, vale a dire come far tornare le persone al lavoro contenendo i contagi, bisognerebbe riflettere su tre punti. “Il primo è se lo smart working potrà diventare veramente una nuova dimensione del mondo lavorativo, magari con soluzioni miste e flessibili ufficio-casa e se questo comporterà anche un ripensamento delle città, magari con il proliferare di spazi di co-working. Se questo è possibile, bisogna porsi un ulteriore quesito: vogliamo inaugurare una nuova fase basata sulla fiducia e la responsabilità nei rapporti di lavoro oppure dare spazio a un nuovo capitalismo di sorveglianza digitale? Da come si risponde cambieranno anche i profili professionali che bisognerà ricercare. Il secondo punto è la gestione della paura. Le imprese non possono limitarsi alla salubrità dei luoghi di lavoro, devono far capire ai dipendenti che hanno a cuore la loro salute tenendosi pronte a chiudere per altri brevi periodi in caso di necessità. Cioè, in capo all’impresa vedo un nuovo tipo di responsabilità, quella sanitaria, ma sarà proprio questo a fare la differenza nella costruzione di un clima positivo. Il terzo punto riguarda la formazione e l’accompagnamento delle persone verso una transizione professionale. In passato ci sono state purtroppo esperienze poco positive con sprechi di fondi ed enti formativi inutili. Ma va superato perché riconvertire le persone sarà fondamentale per alleviare il disagio sociale”.
La fase due dello smart working.
Secondo Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano e membro della task force di professori-ingegneri voluta dal Rettore Ferruccio Resta per studiare il piano della ripartenza del capoluogo lombardo, l’improvvisa accelerazione del lavoro flessibile per il Covid 19 potrebbe essere fuorviante nella valutazione dei risultati. “Noi non abbiamo dubbi, lo smart working aumenta la produttività nelle aziende che può arrivare anche a un delta del 30 per cento e ormai abbiamo un trend consolidato basato sulle rilevazioni di oltre 100 grandi aziende che abbiano seguito negli ultimi anni”, afferma Corso aggiungendo che proprio l’esperienza dell’Osservatorio suggerisce che occorrono da sei mesi a un anno per preparare un’impresa a questa svolta culturale, con investimenti in tecnologie, ma soprattutto preparando il personale, sia dipendenti sia manager e responsabili di area. “E’ quindi possibile che i risultati che si vedranno dopo il lockdown risentiranno della forzatura che c’è stata e della mancanza di preparazione – prosegue – D’altronde le persone hanno potuto imparare in un mese quello che in genere si impara in un anno, dovendo interagire di colpo a distanza e in riunioni anche affollate. E questo apre un altro tema per il futuro”. Quale? “Milioni di persone stanno lavorando da remoto da due mesi probabilmente continueranno a farlo per un bel po’ di tempo per evitare di congestionare mezzi pubblici e uffici e dare la priorità a quelle mansioni la cui presenza fisica sui posti di lavoro è indispensabile. Ma dopo 3-6 mesi queste persone saranno state resettate da questa nuova modalità e per loro non sarà facile tornare indietro. Perciò dico che in questa fase due dobbiamo domandarci: che organizzazione daremo agli uffici nella fase tre? Avrà ancora senso tornare a un’organizzazione basata sulla presenza e sull’orario? Se esiste un nuovo modello è adesso il momento di pensarci”.
Nella fase uno, In Italia come in altri paesi, sul campo sono rimasti solo medici e infermieri, operai di alcune filiere produttive e addetti di servizi indispensabili. Per gli altri c’è stato il lockdown con la casa trasformata d’improvviso in ufficio, una dimensione che in Italia ha riguardato almeno 6 milioni di persone. E gli altri?