No agli espropri di stato
Sostenere le imprese con la liquidità è giusto. Trasformare la pandemia in un’occasione per rivitalizzare lo stato imprenditore è un rischio enorme. Per l’economia e la democrazia
In un recente e ormai famoso articolo, “We face a war against coronavirus and must mobilise accordingly” pubblicato sul Financial Times, l’ex governatore della Banca centrale europea Mario Draghi ha posto le basi politiche e teoriche sulle strategie di politica economica da adottare da parte degli stati per uscire dalla crisi economica e finanziaria. Draghi, in sostanza, ha insistito sulla necessità di fornire liquidità alle imprese che sono state costrette a chiudere e che ora si trovano in gravi difficoltà finanziarie, perché il loro fatturato è colato a picco e i costi hanno sorpassato i ricavi, anche per via del fatto che la maggior parte di esse ha dovuto accollarsi i costi di mantenimento del personale, per non doverlo licenziare, e i costi di funzionamento ma, soprattutto, per non perdere l’avviamento e il posizionamento di mercato e nelle filiere della produzione del valore.
In effetti, il primo allentamento del principio di divieto di aiuti di stato (temporary framework) deciso dalla Ue ha già visto alcuni governi all’opera. Il governo tedesco ha già messo in campo 1.000 miliardi di euro sul totale dei 1.900 finora programmati in seno alla Ue. Si tratta quindi di comprendere appieno la analisi di Draghi. Partiamo dai fondamentali: se lo stato fornisce capitale alle imprese, lo può fare con una strategia di addizionalità o di sostituzione. Nel primo caso, fornisce il capitale mancante; nel secondo caso, espropria, di fatto, il controllo. Ora, purtroppo, mentre i governi del nord Europa stanno sostenendo le loro imprese, fornendo la liquidità che non hanno potuto generare, per via del blocco economico, il nostro (poco competente) governo pare stia imboccando la via della surrettizia statalizzazione delle imprese, pretendendo di impicciarsi, salvo negandolo ipocritamente, della gestione in cambio del capitale.
Dunque la nostra posizione va affermata con chiarezza: siamo stati colpiti da uno shock simmetrico in tutto il mondo. La risposta di politica economica deve essere, appunto, simmetrica. Per questo motivo, il capitale fornito dallo stato deve essere inteso come un indennizzo, un risarcimento. Sosteniamo che le imprese italiane dovrebbero essere indennizzate dallo stato per le perdite subite, come compensazione dall’essere state costrette alla chiusura, o aver rallentato la propria attività economica per assolvere ad un interesse generale, quello della tutela della salute dei cittadini. La quantità e durata di questo indennizzo-risarcimento deve essere in funzione della intensità e durata della crisi. Punto e basta.
Il capitale fornito dallo stato deve essere inteso come un risarcimento, non come l’occasione di una nuova Iri
Il lockdown, dunque, è stato deciso come misura di tutela della salute, e proprio per questo deve essere inteso come un costo di un bene pubblico, realizzato gravando solo alcuni dei relativi costi diretti e indiretti. La crisi economica e finanziaria attuale non è infatti dovuta a uno dei classici fallimenti di mercato, come quelli che si studiano nei manuali di teoria economica. E’ dovuto, invece, a uno shock esogeno che ha colpito, lo ripetiamo, simmetricamente tutti i paesi industrializzati, indipendentemente dai comportamenti adottati dei vari attori economici, che tale shock hanno dovuto evidentemente subire, dovendosi adeguare a delle misure eccezionali, omologhe in tutto il mondo, decise dai governi.
In sostanza, il capitale delle imprese da questo blocco ha avuto un ritorno negativo, ovvero una perdita. E’ questa perdita che deve essere indennizzata dallo stato. Questa perdita equivale all’investimento pubblico finalizzato alla tutela della salute dei cittadini, tramite la chiusura di tutte le attività. In altri termini, la chiusura a fini di benessere collettivo ha ridotto l’attività economica e conseguentemente l’investimento privato, con i relativi effetti in termini di redditività e profitti, presenti e futuri.
I governi, per il solo e semplice fatto che hanno chiesto alle imprese di chiudere per ragione di confinamento sanitario, hanno il dovere di indennizzarle, per tutto il tempo necessario e per tutte le quantità finanziarie necessarie a ripristinare le condizioni quali-quantitative di capitale e di redditività dello stesso. Per questo è profondamente sbagliato, in termini di politica economica (ma vorremmo dire etici), parlare di finanziamenti a fondo perduto o addirittura di mere garanzie statali, o di generica fornitura (gentilmente concessa) di liquidità da parte dello stato alle imprese, come si legge spesso sulle pagine economiche dei giornali. Bisogna chiamare le cose con il loro nome: indennizzi a titolo risarcitorio. Ovvero, ripristino di condizioni di capitalizzazione e redditività delle imprese pre-lockdown con oneri tutti a carico dello stato. A noi sembra che questo sia il senso profondo della proposta fatta da Mario Draghi, che noi temiamo possa essere stata o poco capita o molto travisata dal nostro governo.
Le imprese non hanno bisogno di capitale di rischio, ma di cash flow, quello che purtroppo è mancato durante la crisi
E’ quasi triste che lo abbia capito il governo tedesco prima di noi. Quindi, lo ripetiamo, forte e chiaro. Quando l’ex governatore della Bce parlava di sostituire il capitale privato con quello pubblico, intendeva dire che è compito dello stato immettere liquidità nel sistema finanziario per riportarla al livello pre-crisi. Non parlava di sostituirsi, da parte del capitale pubblico, al capitale privato. Risarcire le imprese ed entrare nel loro capitale societario sono due politiche profondamente diverse, se non opposte. Quella derivante dalla proposta Draghi non può non aver carattere risarcitorio. Se lo stato non indennizzasse le imprese, vorrebbe dire che per tutelare un bene di tutti (la salute), ha applicato di fatto una tassa sulla salute solo su alcuni soggetti privati (le imprese). Quella che vediamo in giro in ambienti di governo sembra piuttosto essere una strategia predatoria. Non vorremmo per l’Italia che l’attuale governo scegliesse di sostenere la seconda, che abbiamo già visto qua e là abbozzata in proposte aberranti, come quella di una vera e propria “sovietizzazione” della nostra industria, con il governo che vorrebbe entrare nel capitale delle imprese e sostituirsi a loro, di fatto, nel processo decisionale, sulla base dell’assunto che, siccome ci mette i soldi, ha anche il diritto di decidere come impiegarli. Un aberrante, appunto, errore di comprensione dei fenomeni, dovuto, probabilmente, all’incultura di una classe dirigente che crede che lo stato rappresenti in questo momento il creditore, nel suo rapporto con le imprese, mentre, in realtà, non è altro che il debitore, complici lo stato di crisi e la paura.
L’idea dell’indennizzo pubblico alle imprese è stata sostenuta per primo da due noti studiosi come Lucio Scandizzo e Giovanni Tria, i quali hanno proposto al governo di seguire una strategia che punti il più possibile a consentire alle imprese di continuare a distribuire redditi anche nel periodo in cui la formazione di questi redditi, cioè l’attività produttiva, è bloccata o ridotta e, quindi, assenti i ricavi che ne derivano. Una combinazione di aiuti diretti dallo stato (a fondo perduto) e maggiore accessibilità al credito permetterebbero di raggiungere i due obiettivi complementari: uno, mantenere aperti i canali di distribuzione dei redditi attraverso le imprese e le attività economiche ad esse collegate e, due, conservare la capacità di creazione di valore del capitale imprenditoriale e umano che è incorporato nell’attività d’impresa di ogni dimensione.
E torniamo al governo e alla pazza idea che aleggia sul decreto aprile-maggio: quella della pianificazione centralizzata rispolverata per l’occasione da illustri consulenti del presidente del Consiglio Giuseppe Conte, si basa su presupposti teorici e ideologici completamente sbagliati e devianti. A partire dal concetto stesso di “pianificazione”, del tutto mal interpretato. Tutti, in economia, pianificano. Dal panettiere al banchiere, dall’agricoltore all’avvocato, chiunque svolga un’attività di impresa sa che non può fare a meno di pianificare il futuro, nonostante gli elementi incerti che lo caratterizzano. La domanda è quindi la seguente: su quale base teorica ed empirica questo governo crede che pianificare la ricostruzione dell’intera economia italiana dall’alto, in maniera centralizzata e dirigista, possa produrre performance economiche superiori a quelle che si raggiungerebbero invece mettendo gli imprenditori nelle condizioni di poter decidere al meglio quello che sanno fare, molto meglio dei funzionari statali, ovvero l’attività economica che ben conoscono? Può davvero il governo credere che degli esperti di task force chiusi nei loro uffici abbiano una conoscenza dei mercati, dei fornitori, dei clienti, delle filiere del valore, migliore di quella che gli imprenditori hanno grazie alla loro esperienza maturata in molti anni di attività? Evidentemente la risposta è sì, se sono arrivati al punto di vaneggiare addirittura un ingresso variamente modulato (piccole, medie e grandi imprese) dello stato nel capitale delle imprese. Una sorta di esproprio statale favorito dalla crisi, con lo stato usuraio che ti presta i soldi, ma ti porta via l’impresa.
Sarebbe un paradosso che l’Europa diventasse il cavallo di Troia per il ritorno di uno stato padrone
Da nessuna parte del mondo sta avvenendo una cosa simile. Nemmeno l’Unione sovietica dei tempi peggiori era arrivata a tanto, se si considera che anche Mosca dovette istituire nell’allora sistema fortemente centralizzato, un meccanismo di prezzi di mercato, cercando, peraltro invano, di replicarne il valore informativo sul funzionamento dell’economia. E’ per questo che, su questa questione, non potremo mai essere d’accordo con l’esecutivo.
E speriamo che il governo non si nasconda dietro la classica frase “anche negli altri paesi stanno facendo così”, perché questo non corrisponde a verità. E’ vero che i governi occidentali, dalla Francia alla Germania, dal Regno Unito agli Stati Uniti, sono intervenuti fornendo miliardi di euro al settore privato. Ma, come detto sopra, mai e poi mai si sognerebbero di trattare le loro imprese come delle realtà fallite, o quasi, incapaci di riprogrammare la ripresa, alle quali sostituirsi. E’ vero, semmai, che negli altri sistemi il governo è intervenuto come potere sussidiario, di ausilio, non come potere sostitutivo o di comando. E, a differenza di quanto avvenuto in Italia, ha immesso più liquidità nel sistema fornendo a imprese e famiglie più “risarcimenti” che “garanzie”, soprattutto in tempi immediati, senza troppe condizionalità o filtri burocratici.
Contrariamente a quanto sta facendo il governo italiano, alcuni paesi europei hanno seguito quasi alla lettera i consigli di politica economica di Mario Draghi. Secondo i dati della Commissione europea, la Germania sta facendo una maxi operazione di fornitura di liquidità alle imprese tedesche, sotto forma di “bail out”, avendo ottenuto il 52 per cento del totale di aiuti approvati dalla direzione Politiche per la concorrenza, sfruttando le norme contenute nel Temporary Framework approvato dalla Commissione stessa, che sospende le norme sul divieto di aiuti di stato da parte dei governi. Un dato che è pari a circa il doppio della sua quota nell’economia dell’Ue. L’interventismo tedesco sta suscitando malumori nelle capitali del sud Europa, per il fatto che esse ritengono di subire una concorrenza sleale che si tradurrà, molto probabilmente, in una ripresa economica più debole rispetto ai paesi del nord, perché le loro economie sono dotate di minori capacità finanziarie e liquidità per sostenere le proprie imprese.
Secondo fonti del Financial Times, inoltre, i funzionari dell’Ue avrebbero discusso, su proposta della virtuosa Austria, un ulteriore allentamento delle regole sugli aiuti di stato, consentendo ai paesi di iniettare capitale (equity) e debito nelle loro imprese in difficoltà. I vincoli includerebbero il divieto di pagare dividendi, di riacquistare azioni o di fornire bonus o simili remunerazioni. Se questo aggiornamento del temporary framework dovesse passare, i paesi del nord Europa disporrebbero di maggiori possibilità nel salvare le loro imprese, avendo liquidità sufficiente per poter fare una operazione del genere.
Il punto è chiaro: abbiamo bisogno di risarcimenti e che le imprese tornino a operare secondo una logica di mercato
Non siamo soltanto noi ad avere questa percezione relativa al rischio di una nuova statalizzazione dell’economia italiana. Giuseppe De Rita, presidente del Censis, ha scritto in un recente articolo sul Foglio che “il pericolo naturale che sta sotto una tale evoluzione è che tutti insieme (governo e popolo) si sottovaluti il fatto che la potenza del nostro sistema (così come l’abbiamo costruita nei decenni passati) non sta nella visione e governo di un solo soggetto (politico o statuale che sia), ma sta nella molteplicità e nella vitalità dei soggetti sociali, di milioni di imprese e famiglie che “sfangano la vita nel lavoro quotidiano”.
Oppure, come ha scritto Andrea Mazziotti sull’Huffington Post, “l’errore più grave che si potrebbe commettere in questo momento è pensare a un ritorno all’Iri o a soluzioni del genere, che metterebbero la nostra impresa in mano alla politica. Per risollevare l’economia italiana, lo stato non deve certo stare a guardare: ha il fondamentale ruolo di mettere a disposizione risorse, strumenti e regole per consentire ai nostri imprenditori di recuperare, rafforzarsi, crescere e competere con quelli del resto del mondo. Ma non deve pensare neppure per un minuto di sostituirsi ad essi, perché non ne ha né la capacità, né le competenze, né la creatività”. Anche il presidente designato di Confindustria Carlo Bonomi, ha avuto parole dure nei confronti di questa pericolosa deriva, dichiarando che questo “fa indebitare le imprese per poi avviare una campagna inaccettabile di nazionalizzazioni”. Bonomi ha chiesto, invece, che vengano pagati tutti i debiti commerciali, che si sblocchino le opere pubbliche già finanziate e si defiscalizzino gli aumenti di stipendio e i salari di produttività. Ben detto.
Le imprese, in sintesi, non hanno bisogno di capitale di rischio, o di equity, ma di cash flow, quello che è mancato durante la crisi, mentre continuavano a sostenere i costi fissi. Le imprese hanno bisogno di una regolamentazione “light”, di un’Europa che giochi su uno stesso terreno. Abbiamo bisogno di mercato, di trasparenza, di risarcimenti. Dopo di che, ognuno faccia la propria parte. Per carità, non vogliamo tornare alle imprese e alle banche di stato, né tornare all’Iri, anche se sotto il nuovo cappello della Cassa depositi e prestiti. Chi deciderà dove andrà il capitale di rischio dello stato nelle imprese? I burocrati ministeriali? Per favore, lasciamo perdere. Questa storia l’abbiamo già vista e superata, anche grazie all’Europa.
Sarebbe un paradosso che adesso proprio l’Europa diventasse il cavallo di Troia (o la foglia di fico) perché in Italia tornasse nuovamente lo stato padrone e imprenditore. Abbiamo bisogno di risarcimenti e che le imprese tornito ad operare secondo una logica di mercato.
Come scriveva il mai dimenticato Friedrich A. von Hayek nel suo famoso scritto del 1976 “La nuova confusione sulla pianificazione”, “il motivo principale per cui non possiamo confidare nella pianificazione centralizzata per poter ottenere l’efficienza nell’uso delle risorse che il mercato rende possibili è che l’ordine economico di qualsiasi grande società si basa sull’utilizzo dell’ampia conoscenza di particolari circostanze, che è dispersa tra migliaia o milioni di individui”.
Credere, nel caso italiano, che pochi illuminati (si fa per dire) seduti dietro un laptop dispongano di quella conoscenza necessaria per fare scelte economiche migliori di quelle che sono in grado di poter prendere, in maniera decentralizzata, milioni di imprenditori italiani, grazie alla loro conoscenza accumulata in anni di esperienza è una pura, pericolosissima, perversa, utopia infantile. Ci stanno portando non solo al fallimento economico, ma ancor peggio all’autoritarismo illiberale. Col ritorno del panettone di stato finisce anche la nostra democrazia.
Renato Brunetta è ex ministro della Pubblica amministrazione, oggi deputato di Forza Italia