Che lo stato entri nel capitale delle imprese, ma no a un nuovo Iri
Quali aziende devono ricevere aiuto? Con quale strumento? E chi controlla? Tre quesiti prima di avventurarsi
Di fronte all’emergenza economica il governo ha risposto con lo strumento delle garanzie pubbliche ai prestiti delle imprese. Le informazioni disponibili ci dicono che pochissimi imprenditori hanno davvero richiesto prestiti a valere sui 400 miliardi disponibili. Non è il debito lo strumento che oggi può risolvere il problema della tenuta del sistema produttivo. Senza prospettive di fatturato, nessun imprenditore può scegliere di indebitarsi.
Nel dibattito dei giorni scorsi vari esperti hanno detto la loro. Romano Prodi (il Messaggero 3 maggio 2020) ad esempio ha auspicato un intervento di sottoscrizione di capitale di rischio da parte pubblica nel settore delle grandi imprese, tenendo fermo il principio che “la presenza pubblica non deve tradursi nella gestione diretta dell’impresa” quindi no a una rinascita di qualche forma di nuovo Iri. Per le piccole imprese – ha scritto Prodi – lo stato dovrebbe invece “incentivare, con il denaro pubblico, raggruppamenti tra diverse imprese fornitrici e imprese acquirenti di beni e servizi, anche tramite una partecipazione azionaria accompagnata dalla presentazione di progetti comuni strategici”,
Innocenzo Cipolletta (Corriere della Sera, 4 maggio 2020) ha proposto anche lui l’ingresso del capitale pubblico nelle imprese (grandi): “Un sostegno temporaneo alla ricapitalizzazione delle imprese, con un ingresso in minoranza nel capitale delle aziende che si sono dovute indebitare. Tutto ciò deve avvenire senza entrare nella gestione e dando garanzie di trasparenza”. Cipolletta parla di un Fondo pubblico-privato di partecipazioni.
Marco Mazzucchelli (Corriere Economia, 27 aprile 2020) lancia l’idea che vada costruito un fondo di ricostruzione e sviluppo finalizzato alla ri/capitalizzazione azionaria di soggetti industriali leader nei settori sui quali l’Italia potrà basare il suo futuro di crescita: agroalimentare, medicale, logistica, automazione, infrastrutture digitali. Suggerisce un ruolo in questo caso della Cassa depositi e prestiti. Il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli, dal canto suo, ha dichiarato (Sole 24 ore, 28 aprile 2020) che vada usato il “patrimonio destinato di Cdp per le operazioni in equity”. Secondo il ministro vanno ricreati “grandi campioni europei, penso ai settori delle Tlc, energia, manifattura, cantieristica e siderurgia e ovviamente l’automotive. Creiamo dei grandi campioni accompagnando l’impresa in questo momento di difficoltà e sostenendo le filiere collegate”.
Mariana Mazzucato (Repubblica, 27 aprile 2020) è forse la sostenitrice più esplicita di un nuovo Iri.: “Serve un ruolo imprenditoriale dello Stato… una vision economica… Lo Stato deve individuare le attività prioritarie per il Paese”. Il dibattito è in corso e non è certo concluso. Va messo da parte il tabù ideologico contrario tout court alla partecipazione pubblica nel capitale delle imprese. In situazioni eccezionali ogni strumento va valutato su un piano pragmatico e operativo.
Posto che possa essere necessario iniettare soldi pubblici nel capitale delle imprese italiane vanno affrontate tre questioni: chi può ricevere questo aiuto, con quale strumento e chi controlla. Quali imprese? Per varie ragioni non è pensabile un intervento indiscriminato che fornisca aiuti a pioggia. Va fatta una riflessione su quali criteri delimitare la platea. C’è un problema dimensionale e settoriale. E’ sensato aiutare le grandi imprese che comunque possono ricorrere ai mercati per finanziarsi? E al contempo, non è immaginabile che lo stato possa entrare nel capitale delle imprese al di sotto di una certa soglia dimensionale. Abbiamo imparato, in questi ultimi dieci anni, che la riscossa industriale italiana è stata guidata da un drappello di medie imprese, internazionalizzate e innovative. Qui forse vanno indirizzate le risorse. Serve quindi una griglia di variabili che consenta di individuare chi possa ricevere aiuto. Criteri di questo tipo renderebbero inutile avventurarsi in difficili e pericolose selezioni per settore. Non pensiamo che in Italia ci siano oggi le competenze in area pubblica per fare quelle politiche dei settori strategici di cui parla qualcuno.
Con quale strumento? E’ essenziale che lo strumento segua una cultura e una logica industriale. Lo strumento scelto è legato alla strategia che si vuole perseguire. Messa via l’idea di un nuovo Iri e quindi messa via anche l’idea che la Cdp possa diventare il soggetto di una nuova politica industriale perché non è nel suo Dna e nel suo mandato, va costruito o immaginato uno strumento ad hoc. Serve una struttura agile, con un ottimo management, con competenze elevate e capacità di operare.
Chi sorveglia? Fatto lo strumento va assicurato che le scelte del Fondo siano ben indirizzate, che ci sia qualcuno che svolga la funzione di controllo e sorveglianza. Romano Prodi ha ben chiaro questo nodo e scrive: in area pubblica oggi “manca una struttura e le competenze per svolgere questa funzione di sorveglianza”.
Va studiata con la massima attenzione questa questione della governance. Chi nomina i vertici del Fondo? Con quali criteri si effettuano le nomine? E poi chi svolgerebbe la funzione di sorveglianza propria dell’azionista pubblico?
Sandro Trento è docente all'Università di Trento