L'economia oltre ai danni del Covid paga quelli dell'eccesso di chiusura
L’Italia sconta il ritardo del decreto aprile, denominato anche decreto rilancio, che in realtà, unitamente alle complicate regole della riapertura, più che rilanciare rischia in molti casi di frenare l’economia stessa
L’industria italiana ha fatto registrare a marzo 2020 una tremenda riduzione tendenziale della produzione rispetto a marzo 2019, pari al 29,3 per cento (secondo l’indice Istat): un evento mai verificatosi in precedenza da quando esistono dati storici comparabili, cioè dagli inizi degli anni Novanta. Anche gli altri Paesi hanno avuto crolli epocali dell’output. Ma il confronto tra noi e le altre principali economie dell’area Euro è impietoso: infatti, la produzione industriale della Francia, secondo le prime stime raccolte da Eurostat nel suo database, è diminuita a marzo del 16,8 per cento; quella della Germania del 14,2 per cento; e quella della Spagna del 12,6 per cento. Stiamo dunque parlando di cali tendenziali che sono quasi la metà o addirittura meno della metà di quello dell’Italia. Non c’è da meravigliarsi, perciò, se le previsioni sul Pil del 2020 della Commissione europea vedono il nostro paese arretrare maggiormente (meno 9,5 per cento) degli altri partner Ue, tra cui la Germania (-6,5 per cento), nonché rispetto a Stati Uniti (-6,5 per cento) e Giappone (-5 per cento). E se altre istituzioni prevedono scarti perfino più pesanti tra la nostra recessione e quella delle altre più importanti economie.
dati Istat
In questo caso non c’entrano i nostri storici divari strutturali, che anzi negli ultimi anni stavamo a poco a poco riducendo con le riforme e con misure di politica industriale serie come il piano Industria 4.0 (soprattutto nel triennio 2015-17). In questa circostanza pesa soprattutto il fatto che noi italiani abbiamo lavorato a marzo di quest’anno solo la prima settimana e poi abbiamo iniziato un rigidissimo lockdown, che ha interessato sia le persone sia le imprese (salvo pochi settori produttivi Ateco). Spagna, Francia e Germania hanno invece dato avvio alle restrizioni sulla mobilità della gente e sulle attività produttive e commerciali con una settimana di ritardo rispetto a noi.
Ma non solo. Infatti, i dati della telefonia ci dicono che a marzo la Germania ha ridotto la mobilità delle persone sui posti di lavoro molto meno delle stesse Francia e Spagna, per non parlare dell’Italia. Mentre ora i dati della produzione industriale ci svelano che la Spagna, pur colpita duramente dal coronavirus, a marzo ha tenuto aperte le fabbriche di più di Francia e Italia e perfino della Germania stessa. E mancano ancora le statistiche di aprile, mese in cui probabilmente vedremo il nostro Paese perdere comparativamente ulteriore terreno nell’output rispetto agli altri principali partner dell’area Euro.
Anche altrove c’è stata e permane l’emergenza sanitaria. Ma noi ai danni della pandemia abbiamo aggiunto quelli di una eccessiva chiusura delle attività economiche. Infatti, è indubbio che in questa Europa leopardizzata dove ciascun Paese si è mosso nello shock del Covid-19 seguendo schemi differenti di restrizione, l’Italia è, tra le grandi nazioni, quella che ha pagato il prezzo più salato. Non solo in termini aggregati ma anche dal punto di vista settoriale.
Nel tessile-abbigliamento-pelli-calzature, per esempio, il calo della produzione in Italia è stato a marzo del 51,2 per cento rispetto allo stesso mese dello scorso anno, contro il meno 14,2 per cento della Germania, il meno 23,9 per cento della Spagna e il meno 29,5 per cento della Francia. Se ci spostiamo nel campo della produzione di veicoli il calo industriale italiano è stato del 55,8 per cento contro il meno 37,6 della Germania, il meno 41,7 della Spagna e il meno 47,6 della Francia. Nel settore della meccanica e degli apparecchi meccanici l’Italia ha fatto registrare a marzo un meno 40,1 per cento tendenziale rispetto al meno 16,3 della Germania, al meno 17 della Spagna e al meno 31,4 della Francia. Nei mobili, il calo produttivo italiano ha toccato il meno 47,1 per cento contro il meno 11,1 della Germania, il meno 26,8 della Spagna e il meno 39,7 per cento della Francia.
Nell’economia globalizzata colpita dal coronavirus, ormai è evidente che ci troviamo di fronte contemporaneamente a una crisi sia di offerta sia di domanda, in una spirale che rischia di essere drammatica. E più la recessione si farà dura, più difficile sarà tamponare anche la crisi socio-occupazionale, specie in un paese come il nostro dai margini fiscali limitati, perché gli ammortizzatori sociali non possono essere eterni.
Il merito principale del lockdown in Italia è stato soprattutto quello di aver impedito con una sorta di “linea gotica sanitaria” la diffusione del contagio al Centro-Sud dove, probabilmente grazie anche al clima, i dati sulla mortalità in certe regioni sono perfino migliori di quelli della Germania (e non certo perché in Sicilia o in Calabria noi abbiamo più terapie intensive e più posti letto negli ospedali dei tedeschi…). Ma al contempo è evidente che le migliaia di morti di Bergamo e Cremona e degli ospizi per anziani della Lombardia e del Piemonte erano fondamentalmente già state “innescate” dalla precedente diffusione del contagio oltre che dal caos gestionale pre e durante il lockdown. Solo la storia farà definitiva chiarezza su questo punto.
Intanto, nell’economia, accanto ai danni di una eccessiva chiusura delle fabbriche e della maggior parte dei servizi (in molti casi attività a minor rischio di contagio di una banale spesa in un supermercato), l’Italia sconta il ritardo del decreto aprile, poi diventato decreto maggio, denominato anche decreto rilancio, che in realtà, unitamente alle complicate regole della riapertura, più che rilanciare rischia in molti casi di frenare l’economia stessa. Sulle procedure dei distanziamenti nei bar, nei ristoranti e nei negozi dei parrucchieri e delle estetiste è il caos più totale di ipotesi e di annunci. I costi elevati delle sanificazioni degli ambienti rischiano di stroncare la riapertura di migliaia di Pmi italiane, quando nella vicina Svizzera il lockdown sembra quasi non essere mai esistito né si sono mai viste simili restrizioni. La burocrazia sanitaria da noi sta affiancando pericolosamente la classica burocrazia amministrativa tradizionale.
Mentre nel contempo le banche italiane non erogano come dovrebbero e con la necessaria rapidità la liquidità alle imprese. Qui basterebbe fare chiarezza, togliere degli alibi e pretendere maggiore celerità. Ai clienti che in base alla centrale rischi risultano in bonis i prestiti con garanzia dello Stato dovrebbero essere dati subito, mentre la pratica di esame del merito di credito per i clienti incagliati non dovrebbe superare al massimo i 5 giorni di durata. In più, le banche dovrebbero essere sollevate da ogni responsabilità penale oltre l’anno sulla verifica della continuità aziendale delle imprese prestate. Chi può ricevere i prestiti con garanzia statale li deve avere subito, non su tempi lunghi quando c’è il rischio che possa aver già chiuso l’attività per l’impossibilità di proseguire. Si rafforzino inoltre sul territorio i Confidi, con un ingresso delle banche (limitato a quote di minoranza e senza poteri negli organi decisionali per evitare conflitti di interesse) e con una eventuale patrimonializzazione dei Confidi stessi da parte della Cdp.
Se poi si vuole evitare che il crollo del Pil italiano del 2020 diventi più pesante delle già terribili previsioni in circolazione, si spinga senza indugio e senza ulteriore confusione normativa e con provvedimenti chiari il rilancio dell’edilizia privata (bene l’Ecobonus) e si sblocchino urgentemente le opere pubbliche ferme.
Noi italiani siamo entrati per primi nel lockdown e rischiamo di uscirne per ultimi, con pesanti riflessi economici, occupazionali e per l’equilibrio dei nostri conti pubblici in assenza di una strategia di ripartenza precisa e di rapida attuazione.