Non c'è rilancio senza nuove dosi di libertà
Più stato dove serve e meno stato dove si può. Le imprese e la fase due: paletti giusti per combattere la decrescita
In un bellissimo articolo pubblicato ieri sul Wall Street Journal, l’ex primo ministro del Canada, il conservatore Stephen Harper, riflettendo sul modo in cui la pandemia ha cambiato in modo radicale gli equilibri tra lo stato e il mercato, ha offerto alcuni spunti di riflessione utili, che ci permettono di mettere a fuoco i giusti paletti con cui delimitare il perimetro di una fase 2 responsabile e di una fase 2 invece irresponsabile. Harper, ovviamente, riconosce che l’intervento del governo in economia oggi è senza precedenti, in America ma non solo in America. Ricorda che il Fondo monetario internazionale ha stimato che le azioni fiscali dei governi hanno già oggi raggiunto il 50 per cento in più di tutte le spese di stimolo adottate durante la crisi finanziaria globale, 3,3 trilioni di dollari totali più altri 4,5 trilioni in prestiti e garanzie stanziati. Registra che in giro per il mondo – solo in America sono decine di milioni le persone che hanno perso il lavoro – il calo del prodotto interno lordo globale supera in scala e velocità i valori registrati negli anni Trenta.
Ma alla fine del suo ragionamento offre uno spunto di riflessione di cui la classe dirigente italiana dovrebbe fare tesoro: “Quando l’attenzione del paese si sposterà dalla gestione della pandemia alla gestione dell’economia, sarà necessario passare da un’azione governativa molto intensa a una meno intensa. E poiché in quella fase le esigenze si sposteranno verso la creazione di ricchezza senza la quale non c’è né crescita né occupazione in quella fase solo i governi che scommetteranno sulla libertà di impresa e sulla responsabilità fiscale avranno la forza di affrontare la recessione e la stagnazione”.
Nel giorno in cui il governo italiano ha finalmente offerto ai cittadini una nuova manovra per traghettare il paese nella fase 2, la riflessione di Harper risulta preziosa perché, al di là dei dettagli del cosiddetto decreto “Rilancio”, mette in luce un principio che non sembra essere propriamente al centro delle attenzioni del governo: quando un’economia va in crisi – e quella italiana lo è: a marzo la produzione industriale dell’area euro è scesa dell’11,3 per cento rispetto al mese precedente e del 12,9 per cento rispetto a un anno prima, in Italia del 28,4 per cento rispetto al mese precedente e del 29,3 per cento rispetto a un anno prima – lo stato deve essere presente il più possibile dove serve ma deve ricordarsi di essere il più possibile assente dove invece serve di meno.
Il governo italiano, almeno finora, ha mostrato molta attenzione al tema della presenza dello stato in economia (sussidi, prestiti, cassa integrazione, nazionalizzazioni) ma ha mostrato invece minore attenzione a un tema affrontato solo parzialmente – seppure meritoriamente – all’interno del decreto “Rilancio”: la necessità di aiutare le imprese in difficoltà offrendo loro non dosi sempre più massicce di burocrazia ma dosi sempre più massicce di libertà. Il presidente del Consiglio, ieri sera in conferenza stampa, ha confermato la cancellazione della rata Irap di giugno per le imprese con fatturato fino a 250 milioni (in tutto per le imprese ci sono circa 16 miliardi su 55 totali stanziati), ha confermato la concessione di contributi a fondo perduto alle imprese (fino a 5 milioni più quelle agricole) e ha introdotto l’esenzione dalla prima rata 2020 dell’Imu per gli immobili del settore turistico.
Seppure con risorse molto limitate e per un tempo molto limitato, la scelta di intervenire sull’Irap è una scelta saggia perché permette di offrire alle imprese non sull’orlo del collasso una forma di liquidità immediata derivata dai soldi risparmiati e messi in circolo grazie a un intervento di carattere fiscale. E dire dunque che lo stato debba essere ben presente dove serve e ben assente dove non serve significa semplicemente ricordare che uno stato desideroso di combattere la povertà senza combattere la ricchezza mai come oggi dovrebbe occuparsi non solo di come mettere più forza dello stato nelle aziende ma di come mettere più forza delle aziende nello stato. E per farlo sarebbe sufficiente seguire la regola delle quattro “de”: defiscalizzare (il 90 per cento dell’Irap, come ha giustamente ricordato il presidente in pectore di Confindustria Carlo Bonomi, serve a finanziarie la spesa sanitaria delle regioni e se l’Italia dovesse prendere in prestito i 36 miliardi del Mes potrebbe cancellare del tutto l’Irap), deburocratizzare (prevedendo al posto di lacci e lacciuoli preventivi che imbavagliano tutto semplicemente sanzioni molto pesanti per chi imbroglia), derogare (come successo a Genova per costruire il ponte con il codice appalti) e decentrare sempre di più la contrattazione delle aziende (durante il lockdown numerosi datori di lavoro sono riusciti a gestire bene la fase di emergenza applicando in autonomia protocolli di biosicurezza, gestendo senza intoppi la cassa integrazione, aumentando gli investimenti e riducendo la conflittualità grazie ai benefici offerti dalla contrattazione decentrata).
Un governo che ha scelto di dare a uno dei decreti più importanti della storia economica dell’Italia il nome “rilancio” per essere coerente con l’obiettivo ed evitare che la parola rilancio sia associata più al gioco del rilancio dei partiti che al rilancio del paese da questo dovrebbe partire: sostenere con una mano le aziende che hanno bisogno dell’aiuto dello stato e aiutare con l’altra mano le aziende che hanno bisogno di una presenza meno soffocante dello stato a spiccare il volo. La definizione dei giusti paletti con cui delimitare il perimetro di una fase 2 responsabile e di una fase 2 invece irresponsabile in fondo è tutta qui.