Paletti della New Iri
L’ex capo Iri, Gnudi, ci spiega perché lo stato deve stare fuori dall’industria pesante e dedicarsi molto al turismo
Roma. Dici Piero Gnudi e viene in mente l’Iri, del quale fu ultimo presidente e amministratore delegato dal 1999 al 2002, nonché liquidatore. Ma soprattutto, assieme all’amico Romano Prodi, ne è stato teorico, stratega e manager (dal 1994 fu nel consiglio d’amministrazione per sovraintendere alle privatizzazioni) così come in generale grand commis dell’industria pubblica, presidente dell’Enel dal 2002 al 2011 e infine commissario straordinario dell’Ilva. Ora che la crisi impone in Italia e nel mondo il soccorso pubblico alle imprese, Gnudi dice al Foglio che un ritorno dello stato imprenditore “è inevitabile, ma guai a pensare all’Iri di un tempo; sarà tutto molto diverso, e molto più difficile”. In che senso? “L’Iri ha una storia di nefandezze ma anche di glorie. Non solo per le reti autostradali e di telecomunicazioni nelle quali l’Italia ebbe la leadership mondiale. Penso al fascismo, quando Benito Mussolini incaricò l’ex socialista Alberto Beneduce di produrre una formula che salvasse l’economia italiana dalla crisi nata a Wall Street: 1.800 imprese furono risanate e riportate al mercato in collaborazione con i privati. Poi il regime si militarizzò e cambiò tutto”. Roosevelt cercò di rimediare alla Grande Recessione con il New Deal, termine tornato anche quello in auge, cioè un decennio di massicci interventi statale nell’economia. “Sarà molto diverso ma per alcuni settori egualmente grave. Il New Deal rooseveltiano salvo gli Usa dalla fame e intanto edificò città e infrastrutture. Qui a rischiare non sono le grandi banche e le grandi industrie, ma le medie, piccole e piccolissime imprese, soprattutto nel turismo. Nazionalizzarle è impensabile; la loro struttura non lo consente. Molte sono destinate a chiudere a meno che abbiano l’intelligenza e gli strumenti per accorparsi e crescere di dimensioni. Ma per questo ci vuole una strategia industriale dall’alto”.
Con le garanzie e con la Cassa depositi e prestiti? “Le garanzie pubbliche servono alla liquidità di pronto soccorso. La Cdp ha il Fondo italiano di investimento creato dopo la prima crisi del 2008-2009, e che finora è rimasto a metà del guado. Bisogna farne un vero grande fondo, convogliarvi risorse che altrimenti si disperdono inutilmente, assegnargli il compito di intervenire nelle piccole e medie aziende e nei settori esposti, con un orizzonte di sei-sette anni. Per funzionare non può limitarsi a mettere capitali, deve stare negli organi di controllo, almeno dei consorzi data la polverizzazione del settore, e agire con un piano proiettato sui prossimi decenni. Il turismo rappresenta con l’indotto il 14 per cento del nostro Pil, e di un ammodernamento aveva già bisogno. Eravamo la prima mèta del Mediterraneo, la Spagna ci supera da un pezzo e nell’intera Europa siamo dietro alla Francia e al Regno Unito. Mentre incombono non solo la Grecia ma anche il Portogallo, la Croazia, perfino Germania e Austria”.
Come può lo stato fare l’imprenditore turistico? Quando ci ha provato non è andata benissimo. “Servono manager da contendere al settore privato. Devono avere voce in capitolo nelle sedi mondiali dove si decidono ogni anno le rotte e le destinazioni. Le Germania in questo è maestra, così come la sua Kfw affianca da tempo le piccole e medie imprese”. Ci vuole anche un’Alitalia pubblica per sempre? Tre miliardi di ricapitalizzazione sono molto più del previsto. “Non è solo un problema Alitalia ma dell’intero trasporto aereo. Però se si è salvata inutilmente l’azienda quando non serviva, adesso avrebbe senso. La formula della compagnia di bandiera fa storcere la bocca, ma anche da lì dipende il turismo. Altrimenti perché il governo tedesco vuole intervenire in forza in Lufthansa?”. Forse per tamponare una crisi temporanea. “Ma Lufthansa ha una forza tale da decidere dove e come volare. L’Alitalia no, da anni si appoggia a partner esterni che fatalmente utilizzano i loro scali. Gli slot, le destinazioni dedicate, sono la chiave degli spostamenti di massa”. Sempre all’Iri si torna. “Non a quella dei miei tempi. Deve star fuori dall’industria pesante e dalla manifattura, dove peraltro sono presenti altri gruppi pubblici che se la cavano bene. Soluzioni semplici a problemi difficili non esistono: ma se non avessimo la cassa integrazione avremmo già il 30 per cento di disoccupati come gli Usa. Con la differenza che là saranno presumibilmente riassunti, e magari ci sarà una ripresa a V. Qui non si può pensare all’assistenza perenne e ad una ripartenza che, se va bene, sarà ad U”.