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Solo un grande piano di defiscalizzazione può salvare l'Italia

Ernesto Felli

Rendere detraibili le spese turistiche e credito d’imposta per incentivare gli investimenti. Due idee per ripartire

Astenersi dal profluvio di commenti front-load non è solo un esercizio di stile. E nemmeno di prudenza, la quale di questi tempi detterebbe di non scaricare ulteriore materiale nella cartella degli oggetti irrilevanti, triti e ritriti. Roba che, nonostante sia sottoposta all’usura della naftalina, continua ad abusare senza ritegno della tolleranza dei lettori/ascoltatori. No, il motivo di fondo di questa attitudine al “distacco” mi deriva dall’adesione ad un argomento di Daniel Kahneman (“Thinking, Fast and Slow”, 2011), in base al quale in situazioni inusuali e poco frequenti “saltare alle conclusioni” sulla base di prove limitate (pensiero veloce) diventa molto rischioso giacché non è detto, anzi è molto improbabile che «quello che si vede è l’unica cosa che c’è», che è quel bias cognitivo denominato WYSIATI (“What You See Is All There Is”). E quindi occorrerebbe un po’ più di “pensiero lento” (che poi dovrebbe essere congeniale alla categoria degli economisti, quelli che Richard Thaler ha chiamato gli “Econ” contrapponendoli caricaturalmente agli “Umani”).

  

Ciò detto, percepisco un certo spin da cambio di paradigma – troppi impegni, troppi viaggi, troppi scambi, troppi trasporti, troppe macchine, troppe partite, troppi movimenti, troppi spostamenti, troppi gin&tonic e pasti gourmet in compagnia…Ma non è per niente assicurato che il cambio si avveri. Allora devierò anch’io dalla saggezza cognitiva suesposta e salterò a qualche conclusione sotto forma di una proposta di policy front-load. Ma giusto una cosa semplice e rapida, per poi concentrarmi sulle cose che mi stanno più a cuore.

  

La proposta è questa. Il turismo è uno dei settori più colpiti da questo shock epidemico da Sars-Co2. Il settore conta per circa 1/8 del Pil nominale italiano, oltre 200 miliardi di euro. Comprende una miscellanea di “servizi” che vanno dall’ospitalità (“ricezione” nelle varie forme di alberghi, b&b, case-vacanza, agriturismo, etc.) alla ristorazione e al “consumo sociale” (bar e intrattenimenti vari), allo shopping, ai servizi balneari, montani e ricreativi/sportivi, sino all’offerta culturale (luoghi storici, musei, etc.). Se si considera la spesa turistica anziché il valore aggiunto del settore, si scopre che la componente estera, cioè quella proveniente dal resto del mondo (cosiddetta “inbound”), rappresenta circa il 45 per cento del totale. Considerando che questa componente estera della spesa turistica in Italia (che rappresenta un’esportazione di turismo) continuerà ad essere sottoposta a restrizioni oggettive e soggettive a causa dell’epidemia così come la corrispondente spesa degli italiani all’estero, sarebbe importante uno scambio tra le due componenti. Nel gergo sovranista si potrebbe dire “dagli italiani agli italiani”. Si tratta di circa 25 miliardi, l’1,5 per cento del Pil. Naturalmente, non esiste una bacchetta magica per operare questo rimpiazzo. E’ però possibile escogitare un sistema di incentivi per favorirlo. Ed ecco la proposta: defiscalizzazione integrale delle spese turistiche degli italiani sul territorio nazionale. L’ammontare di tutte queste spese dovrebbe essere reso detraibile dalla determinazione dell’imponibile ai fini del calcolo dell’imposta sul reddito. Allo stesso tempo occorrerebbe persuadere gli operatori a favorire le vacanze dei loro dipendenti e scoraggiarli da comportamenti predatori in materia di prezzi – i mezzi ci sono (ad esempio il famigerato scaglionamento delle ferie) e se ne parlerà laddove la proposta trovasse una qualche accoglienza. L’incentivo dovrebbe anche spingere a ridurre il risparmio precauzionale dei consumatori e a spingerli ad attingere con maggiore larghezza allo loro ricchezza netta (pari a quasi 170 mila euro pro capite secondo i dati della Banca d’Italia, qualcosa come 9.700 miliardi complessivi nel 2017, considerando anche le proprietà immobiliari). A ciò andrebbe aggiunto uno schema di sussidi e di agevolazioni di scopo per le famiglie prive di risorse e di risparmi e che le vacanze non le fanno.

   

La misura avrebbe come sotto-prodotto un probabile aumento dell’ottemperanza fiscale, con emersione di “sommerso” e di tutte quelle belle cose là. Infine, questa policy ha un’altra caratteristica interessante: è giustificata dal principio di disegnare interventi fiscali tendenzialmente neutrali sul bilancio pubblico, nel senso che il costo fiscale front-load, o meglio ex-ante della misura, derivante dalla riduzione prevista di gettito, sarebbe più che compensato dall’incremento delle entrate fiscali complessive generato dall’aumento della domanda interna connessa alla spesa turistica (che include ovviamente anche le varie attività connesse alla mobilità delle persone). In una fase in cui il ricorso al debito per finanziare qualunque cosa si ritenga utile alla ripresa è divenuto un mantra, che lo definisce come l’unica e la più desiderabile strada perseguibile (persino sostenibile, in verità, per date condizioni iniziali e in presenza di tassi d’interesse bassi ed inferiori al tasso di crescita), la suddetta caratteristica della proposta ha un grande appeal, almeno dal mio punto di vista. La prospettiva, ai miei occhi una minaccia, di una dilatazione smisurata dello stato per far fronte all’emergenza non è inevitabile. Posto che sia ragionevole in una situazione come la nostra, in cui l’inefficienza e le distorsioni delle politiche e delle istituzioni pubbliche (ai vari livelli giurisdizionali, centrali e locali) sono una delle cause sia dell’eccesso di debito sia del difetto di crescita (le due cose sono peraltro correlate). Una delle conseguenze spiacevoli è rappresentato dal restringimento dello “spazio fiscale”, che limita l’uso delle politiche anticicliche quando e quanto più ce n’è bisogno. Il margine discrezionale del bilancio pubblico dovrebbe essere usato senza restrizioni e ricorrendo al deficit se necessario (ma un ammontare inutilizzato di finanziamenti è già iscritto nei bilanci) per realizzare gli investimenti in infrastrutture di base (incluse quelle sanitarie ovviamente, e compresa la manutenzione di tutte quelle esistenti). Questi investimenti “produttivi” accrescono lo stock di capitale pubblico, il quale è un input complementare nel processo produttivo, entra nella funzione di produzione delle imprese private e ne accresce la produttività. Politiche di bilancio miopi e regole fiscali distorsive hanno pesantemente ridotto negli anni gli investimenti pubblici in Italia. Il loro impiego vigoroso è uno dei fattori che può stimolare la ripresa della produttività e della crescita in una prospettiva di medio periodo, in quanto gli investimenti pubblici possono funzionare da catalizzatore. E sarebbe da sfruttare l’opportunità fornita da questa crisi senza precedenti per rivedere radicalmente le regole fiscali che causano distorsioni nelle decisioni dei policy-makers (miopi), spinti dall’ottemperanza alla disciplina fiscale ad incidere pesantemente sulle spese del bilancio pubblico più facili da tagliare. Ma questa è un’altra storia che richiede una narrazione separata. Aggiungo solo, per concludere, che il colossale attivismo monetario e fiscale proclamato per rispondere alla crisi-coronavirus implicherà, una volta effettivamente realizzato, più inflazione (il che entro certi limiti non è un male) e più tasse (che invece lo sono ai nostri livelli) e, se non sarà guidato da un indirizzo “amichevole” verso la crescita, deprimerà la remunerazione e l’accumulazione degli input produttivi, tanto il lavoro quanto il capitale, e quindi la crescita della stessa produttività.

  

E ora vengo alle cose che mi stanno più a cuore. L’Italia affronta questo shock da pandemia quando già la sua economia si stava piegando a una curvatura recessiva. In verità, il dinamismo del nostro sistema aveva cominciato a declinare da tempo (a partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso) ed era stato ulteriormente frenato dalla crisi finanziaria e da quella dei debiti sovrani (2007-13). Uno scenario che ben si può definire di stagnazione. In queste condizioni il cataclisma coronavirus potrebbe determinare una reazione “last resort”, nel senso di un’inversione di paradigma, un cambiamento dirompente del tipo di quelli che nella storia si sono già verificati all’indomani di altre epidemie o di guerre, rivoluzioni etc.

  

Questa crisi è innanzitutto uno shock di offerta senza precedenti. Sul quale si attorciglia uno shock di domanda che ne amplifica certi effetti. Se si usa il modello macroeconomico canonico (neo-keynesiano) dell’offerta e della domanda aggregate (il Modello AS-AD in sigla), questi effetti di offerta sono rappresentati da una pressione sui prezzi, oltre che da una riduzione del reddito e dell’occupazione (la caduta della domanda aggregata mitiga l’effetto sui prezzi ma aggrava quello sul reddito). Ora quello che c’è da capire è se lo shock sia di tipo transitorio, ossia se esaurita la fase critica e superati gli effetti immediati dello shutdown, sarà riassorbito senza lasciare tracce importanti da una fase di ripresa che riporterà l’economia sul suo sentiero di crescita pre-crisi (che nel caso dell’Italia era già assai insoddisfacente). In questo caso, diventa cruciale il tempo, ovvero se la ripresa sarà rapida e intensa oppure no. Secondo le proiezioni del FMI, dopo un crollo del Pil del 9.1 per cento quest’anno, l’economia italiana dovrebbe crescere ad un tasso del 4.8 per cento nel 2021 (una velocità senza precedenti nella storia degli ultimi 40 anni). Ma attenzione, anche se per ipotesi (assai improbabile) la nostra economia mantenesse un ritmo così veloce anche negli anni successivi, diciamo un tasso di crescita del 4 per cento, impiegherebbe altri 3 anni per riportarsi sul suo trend di lungo periodo dell’1 per cento. E se più ragionevolmente la velocità fosse la metà (e anche una crescita del 2 per cento non sarebbe assicurata), ci impiegherebbe molto di più (sino al 2030).

  

Ma c’è l’altra possibilità e cioè che lo shock abbia effetti più persistenti, coinvolgendo la capacità produttiva, la produttività e lo stesso prodotto potenziale (ossia quel livello di output che si raggiunge in equilibrio, quando l’economia procede “normalmente”, senza oscillazioni e frizioni, il trend insomma). In tal caso, le conseguenze sarebbero ancora più devastanti.

  

Ora, non è facile capire verso dove ci stiamo muovendo e quali delle due possibilità enunciate sarà più probabile e quindi quali politiche di ampio respiro (non front-load) dovrebbero essere escogitate per contrastarne gli effetti – dato che anche i soli shock di domanda possono avere effetti persistenti e ridurre il potenziale, figuriamoci quando vi si associa come nella crisi corrente uno shock di offerta che modifica la posizione e la geometria della funzione di produzione aggregata (riduce cioè il prodotto marginale degli input produttivi a cominciare dal lavoro). Allo stato delle conoscenze, sono possibili tanto una narrazione ottimistica quanto una pessimistica. Non è il caso di avventurarsi su questa strada, che lascio volentieri agli esperti di predizioni e di fantasy. Ma posso esporre alcuni argomenti (in attesa delle evidenze che verranno) per illuminare un po’ gli scenari e le connesse probabilità. Non è complicato rendersi conto che questa crisi determinerà un processo di riallocazione e re-distribuzione delle risorse e siccome è causata da una pandemia avrà un impatto globale (e sulla globalizzazione). Questi processi di solito riguardano le interrelazioni tra le imprese di un singolo settore e quelle tra settori produttivi diversi. La selezione darwiniana che determinerebbe l’emersione delle imprese più efficienti e la scomparsa di quelle marginali e quindi una crescita della produttività, del prodotto potenziale e della crescita economica di lungo periodo (la famigerata distruzione creatrice shumpeteriana), non sono un esito assicurato di questi processi. Insomma un “gioco a somma positiva” non è garantito. Perché a comprimere e a deviare le spinte positive si presentano sempre le resistenze e le reazioni degli “incumbent”, dei detentori di potere di mercato, dei cercatori di rendite monopolistiche e di tutti i legittimi “stakeholder” coinvolti. Nel caso italiano, c’è poi la questione della distribuzione della dimensione delle imprese, squilibrata verso il micro e il piccolo, che non è chiaro quale ruolo possa giocare in un contesto del genere. Qui un ruolo attivo della politica e dello stato sarebbe opportuno per contrastare i comportamenti predatori e “rent seeking”, oltre che naturalmente per sostenere il reddito di tutti i “perdenti”, imprenditori e lavoratori.

  

La questione cruciale riguarda la produttività. Senza una forte crescita della produttività non ci sono prospettive. E allora bisogna capire come saranno influenzati da questa crisi i fattori che ne sono alla base. E qui appunto le cose sono complesse e non è il caso di conclusioni affrettate. Gli economisti hanno da tempo messo in luce quali sono questi fattori, i “driver” della crescita economica. Senza farla troppo lunga, quello che al riguardo onestamente si può dire è che alcuni di questi fattori non dovrebbero essere colpiti troppo negativamente. Non il lavoro e neanche lo stock di capitale, i due fattori di base della produzione. Questa pandemia ha un impatto tragico sulla vita di molte persone, ma per quello che si è capito non dovrebbe intaccare in modo significativo la dimensione della forza lavoro (potenziale). Quindi, al di là dei non trascurabili effetti di breve periodo, che determineranno la frazione effettivamente occupata della forza lavoro potenziale, non verrà da qui un effetto negativo permanente. Anche lo stock di capitale fisico (macchinari, edifici, mezzi di trasporto, etc) non dovrebbe essere colpito in modo particolare da questa crisi, come avviene invece nel caso di una guerra, e ad eccezione di alcuni specifici settori (come proprio il turismo, soprattutto a lunga distanza, il trasporto, e quei settori che alimentano il “consumo sociale”). Pertanto, le aggiunte a questo input produttivo che ci si possono aspettare come conseguenza della risposta al coronavirus e indipendentemente dalle politiche messe in campo, non riguarderanno tanto le attrezzature convenzionali, quanto quelle, private e pubbliche, connesse alla sanità, e in genere alle tecnologie che in ogni settore produttivo riducono il rischio e accrescono la resilienza.

  

Più ambiguo è il caso del capitale umano, un altro fondamentale fattore di crescita. Non credo che l’effetto del distanziamento sociale sull’apprendimento scolastico avrà una traccia duratura sull’accumulazione di capitale umano, cioè sulle abilità acquisite dagli attuali studenti (anzi lo smart teaching/learning dovrebbe affinare certe capacità, senza contare che c’è una certa evidenza empirica sul fatto che lo “schooling” sia anticiclico, di modo che la crisi potrebbe addirittura migliorare anche se marginalmente i risultati educativi). Tuttavia, qui sono in agguato i possibili effetti di isteresi legati alla perdita di efficienza dei lavoratori dovuta ad una prolungata inattività, ma anche quelli legati alla disoccupazione ciclica che storicamente ha determinato conseguenze negative durature sulle abilità dei lavoratori presenti e futuri. Sono questi rischi che dovrebbero orientare le politiche pubbliche e fissarne le priorità se si guarda alla crescita.

 

Ci sono infine due altri driver fondamentali della crescita economica: le istituzioni e la produttività totale dei fattori (TFP), collegata al progresso tecnologico. Per la TFP le implicazioni di questa crisi sono complesse e non è semplice decifrarle. Qui mi manca lo spazio e per ora la lascio da parte. Per quanto riguarda le istituzioni, la crisi ha rivelato, se ce n’era bisogno, la profonda inadeguatezza di quelle italiane. Qui c’è veramente poco da aggiungere: una riforma radicale e multidimensionale è inderogabile, a cominciare dall’abbattimento del red tape, del carico burocratico che soffoca il dinamismo persino nel caso delle più elementari iniziative del fare affari. Non offre questa crisi una straordinaria opportunità per cominciare a lavorarci e da subito? La strada da percorrere è tracciata da tempo. Personalmente, mi piacerebbe che si partisse dall’origine dell’inefficienza che è rappresentata dalle distorsioni della iper-produzione legislativa. Qui potrebbe soccorrere la Fist-Rule, cioè la regola/incentivo Fiorini-Felli lanciata proprio su queste colonne nel giugno 2008, che enunciava un principio generale di stabilizzazione della produzione normativa basato sulla modificabilità vincolata delle leggi approvate dalle Camere.

 

Alla luce di tutto ciò, quali sarebbero le policy per favorire il cambio di paradigma, per sfruttare l’occasione allo scopo di rilanciare la crescita del paese? Qui sto parlando della politica fiscale a livello nazionale (quello europeo è un’altra storia). Come si è capito, a me in questo momento sta a cuore un principio generale: gli interventi devono essere focalizzati sulle politiche fiscali pro crescita. Questo si può fare tagliando il carico fiscale che grava sugli input produttivi, lavoro e capitale. Non si tratta semplicemente di aumentare il reddito disponibile di tutti, lavoratori e imprenditori, per favorire i consumi (il che non è disprezzabile, s’intende), ma di determinare l’incentivo a produrre e investire di più, a lavorare di più e in più. Cominciando col ridurre il costo degli investimenti, attraverso il credito d’imposta, e delle assunzioni, attraverso il taglio del cuneo fiscale. Il finanziamento di queste misure non può venire solo dai possibili effetti “mundelliani” (prodotti ipoteticamente dall’aumento netto di gettito generato dalla riduzione delle aliquote marginali) e dal deficit, ma soprattutto dalla rimodulazione delle imposte indirette. In questo modo se ne assicura, almeno parzialmente, la sostenibilità.

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