(foto LaPresse)

La vera s-burocrazia

Mario P. Chiti

Modello Genova. Una soft law per Anac. Affidarsi al diretto Ue. Nuove regole per ripartire

Tra le molteplici conseguenze del Covid-19 è stata percepita da tutti l’inadeguatezza della gestione dell’emergenza da parte di varie amministrazioni pubbliche: forniture lente o bloccate, non sempre tecnicamente adeguate; servizi duplicati o assicurati senza un quadro programmatorio; dispersione delle risorse; lentezze nell’attuare i benefici sociali e gli aiuti alle imprese. Neanche gli ampi poteri della Protezione Civile hanno sopperito appieno a questa situazione; aggravata dall’inefficacia del regionalismo amministrativo in tempi di crisi estrema. Una delle maggiori cause di queste disfunzioni è stata considerata la disciplina degli appalti pubblici. Di conseguenza, si è rilanciata la proposta di una riforma dell’attuale disciplina. Occorre però distinguere tra le esigenze urgentissime dell’attuale crisi pandemica e quelle di struttura, anche se sollecitate da quanto sta accadendo. Per la prima questione è una falsa notizia, una fake new da smentire radicalmente, che l’attuale disciplina non sia appropriata. Le direttive dell’Unione europea che regolano la materia (principalmente la direttiva 2014/24) hanno norme che in presenza di situazioni assolutamente eccezionali, come la presente, autorizzano gli Stati membri alla più ampia gestione autonoma degli appalti pubblici; quasi senza più vincoli. La Commissione ha pubblicato tempestivamente il 1° aprile scorso una Comunicazione in cui spiega in dettaglio che il diritto dell’Unione offre alle autorità nazionali “tutta la flessibilità necessaria per acquistare il più rapidamente possibile beni e servizi direttamente collegati alla crisi del Covid-19”; anche arrivando ad interagire direttamente con il mercato per ottenere le migliori condizioni. Il Codice degli appalti pubblici italiano altro non è che l’attuazione delle direttive dell’Unione in questa materia; così che offre le stesse opportunità. In ogni caso, le amministrazioni che gestiscono gli appalti – a parte il caso particolarissimo della Protezione Civile – sono ora direttamente garantite dallo “scudo” dell’Unione; visto che la materia è pressoché integralmente comunitarizzata. Non si può neanche porre il problema del danno erariale, se queste opportunità sono utilizzate appropriatamente. Va dunque accantonata la falsa tesi che l’attuale disciplina dei pubblici appalti sia una delle cause del cattivo funzionamento della gestione amministrativa dell’emergenza che è sotto gli occhi di tutti. Problema del tutto diverso è quello della riforma di questa legislazione, da varie parti sollecitata; anche per rilanciare l’economia così duramente colpita. Si consideri che negli ultimi venti anni l’Italia è il Paese dell’Unione che, a parità del punto di partenza (le direttive europee), ha più di tutti modificato le proprie norme; centinaia di correttivi e mini riforme; una sorta di “bulimia legislativa”. Ne è emersa, anche dopo il Codice del 2016, un’ipertrofica ed instabile normativa; ottimo alibi per le amministrazioni renitenti ad attuarle al meglio. Anche le “linee guida” Anac sono state trasformate da soft law, normativa leggera e facilmente adeguabile, in regole sostanzialmente rigide, vincolanti ed irretenti. Spesso, poi, ci si dimentica che il Codice attuale, a parte situazioni eccezionali come il Covid-19, prevede ampie flessibilità per una gestione efficace da parte delle pubbliche amministrazioni; spazi significativi per decisioni discrezionali, non per caso denominati “libertà di amministrazione”. Se le amministrazioni pubbliche non utilizzano queste molteplici occasioni è per la loro perdurante carenza di cultura gestionale e per il timore di incorrere in danni erariali. Data comunque la straordinarietà del momento, cerchiamo di immettere nel sistema elementi di novità, anche legislativa, capaci di scuotere l’attuale torpore delle amministrazioni pubbliche. Rimanendo nel sistema dell’Unione europea – condizione essenziale per il Paese – le iniziative possibili, ed a mio avviso utili, sono le seguenti:

 

a) Estendere il “modello Genova” ad una serie di opere strategiche è una scelta compatibile con il diritto dell’Unione; a condizione di valide motivazioni, che ci sono, e di non far diventare tale modello la regola. Proprio il numero limitate di queste opere strategiche consentirebbe un attento monitoraggio su possibili fenomeni corruttivi ed infiltrazioni malavitose;

 

b) Abbandonare esplicitamente l’impegno ad approvare un regolamento di attuazione del Codice dei contratti pubblici; da cui potrebbero derivare centinaia di nuove disposizioni, il contrario della semplificazione;

 

c) Mantenere le “linee guida” Anac è opportuno, ma rivedendo quelle sinora approvate per renderle più semplici ed efficaci, secondo il modello di un vero soft law. Stesso impegno anche per le prossime linee guida, ovviamente;

 

d) Disboscare le procedure amministrative che compaiono in decine di articoli del Codice è possibile e necessario (qua si annida molto gold plating), sia con una formale abrogazione che con l’introduzione di termini e condizioni definite che possono comunque essere superate in caso di ritardi od omissioni;

 

e) Semplificare al massimo possibile le procedure per i contratti sotto soglia è compatibile con le direttive e il diritto UE. Dovrebbero rimanere in vigore solo i principi generali del diritto UE (colonne d’Ercole di ogni riforma);

 

f) Rivedere la disciplina del danno erariale, è necessario. Specie la nozione di “colpa grave” che nell’esperienza del Codice sta irretendo anche le più innovative amministrazioni. Il tema è fuori del Codice, ma incide grandemente su di esso.

 

Mario P. Chiti è docente all'Università di Firenze