Perché la responsabilità penale per Covid mette a rischio la ripresa
L'Inail ha fatto capire che la colpa per il contagio di un dipendente potrebbe ricadere sull’azienda. "La Pa, incapace di gestire questa situazione, scarica tutto sugli imprenditori", dice Nicolò Rebecchini, presidente dell’Acer
Vedremo se tra i 98 provvedimenti attuativi del quale avrà bisogno il decreto rilancio per tramutarsi in realtà ce ne sarà uno che esonera i datori di lavoro dalla responsabilità penale e civile di un dipendente che abbia contratto il Covid non solo al di fuori del luogo di lavoro ma per responsabilità effettiva dell’imprenditore. Finora questo è stato abbastanza vagamente promesso, ma una norma, una semplice norma, che lo stabilisca per ora e per il futuro, tuttora non è stata messa nero su bianco.
Su questo - sul tema della burocrazia difensiva, e vedremo perché – si è svolto a Roma un convegno promosso dalla Associazione costruttori edili romani. “La responsabilità penale per coronavirus mette a rischio la ripresa. Non ci sarà ripartenza se non abbiamo a fianco la Pubblica amministrazione. Ma questa se ne sta a casa e lavora in smartworking mentre i privati sono costretti a riaprire per necessità economiche”, dice Nicolò Rebecchini, presidente dell’Acer. “Non solo. Tutto il mondo si sta confrontando con il coronavirus, ma neppure la medicina sa che cosa accadrà. Il Covid viene definito come infortunio sul lavoro, la scienza non sa cosa fare e la Pa, incapace di gestire questa situazione, scarica tutto sugli imprenditori”.
L’allarme è scattato quando alle linee guida dell’Istituto superiore di sanità e a quelle della task force presieduta da Vittorio Colao, alle circolari governative e delle regioni, alle iniziative dei sindaci, si è sovrapposto nell’immediata fase pre-riapertura l’Inail, l’ente di stato che verifica e rimborsa gli infortuni sul lavoro. Che non si è occupato solo di metri tra ombrelloni e tavolini di bar e ristoranti, ma soprattutto ha fatto capire che la colpa per il contagio di un dipendente potrebbe ricadere sull’azienda. Successivamente si è cercato di mitigare questo diktat riducendo l’interpretazione al contagio “sul luogo di lavoro”, di per sé difficile da dimostrare se il virus circola e nessuno è tuttora riuscito a risalire, da nessuna parte del mondo, ai pazienti uno e zero. E parlando di “dolo” del datore di lavoro. Un contagio doloso? La verità è che le aziende hanno speso, giustamente, milioni di euro per sanificare stabilimenti, negozi, esercizi e cantieri. “In realtà gli imprenditori subiscono una presunzione di colpevolezza a causa del Covid se un loro lavoratore si ammala e si dovrà subire una indagine per questo” continua Rebecchini. – “Ma se anche l'imprenditore facesse il tampone a tutti non sarebbe a posto lo stesso. Allora questo è il momento che il paese deve cambiare passo. Non possiamo lavorare e sentirci responsabili della pandemia di Covid-19. Lo stato dovrebbe cercare di abbassare conflitto sociale che ci troveremo ad affrontare nei cantieri, non solo dal punto di vista penale e amministrativo. Per gestire ripartenza ci vuole responsabilità. Ci sono i protocolli sulla sicurezza e devono essere assolutamente rispettati, ma non si può rispondere anche di quello che succede fuori dall’ambito lavorativo e pagarne, comunque, le conseguenze civili e penali. Questo il motivo per cui la pubblica amministrazione tiene a casa, in smartworking, i propri dipendenti. Purtroppo, almeno a Roma, il ricorso al lavoro agile sta rallentando ancora di più lo svolgimento dell’attività amministrativa”.
La faccenda, per inciso, rallenta anche la ripresa dei campionati, a cominciare dal calcio. Può apparire un argomento meno urgente rispetto alla necessità di tenere a galla il paese, ma proprio nelle spiegazioni governative sul mondo del pallone c’è la spia di come l’apparato burocratico politico intenda l’aspetto delle responsabilità: se all’estero in caso di sportivo contagiato viene messo in quarantena lui ed i suoi diretti collaboratori (medico, fisioterapista), in Italia si parla di bloccare un’intera squadra più lo staff; in tutto una cinquantina di persone. Stessa cosa per le precauzioni per allenamenti e alberghi. Insomma, la responsabilità non viene attribuita individualmente o alla presenza del virus circolante, ma a livello societario.
I costruttori, settore particolarmente esposto perché il lavoro si svolge all’aria aperta e in ambito personale non ristretto, chiedono soluzioni condivise con i privati, e non burocratiche. “Ma perché, e qui siamo alle aberrazioni, si sente ancora dire che forse non riapriranno le scuole a settembre, ma si chiede di aprire i centri estivi ai privati? I privati sono costretti ad aprire per necessità economiche. Di fatto è tutto riaperto. E mi chiedo: l'esercente che ha dato l'Aperol è responsabile di quello che succede in piazza? No. Noi invece facciamo un cantiere sapendo che ci saranno queste cose finché non si trova un vaccino. La politica si è scudata e noi siamo qui a doverci preoccupare di tutto quello che succederà”.
Edoardo Bianchi, presidente nazionale dell’Ance: “Ancora non sono chiare le modalità di contagio. Le imprese danno una grandissima disponibilità, ma i protocolli ogni mese spostano l'asticella più in là, perché la conoscenza degli esperti è in continua evoluzione. Ma un povero cristo di imprenditore che fa di tutto per rispettare le regole, come fa ad andare sereno a riaprire un cantiere? In questo Paese negli ultimi tempi c'è una presunzione di colpevolezza se sei imprenditore. Solo dopo si deve dimostrare di essere innocente”. E dire che Giuseppe Conte ha affermato che “si riparte in base ad un rischio calcolato, in quanto è giusto così”. In base allo stesso criterio la responsabilità può essere fatta risalire anche a lui?