La guerra della web tax

Carlo Stagnaro

La tassa sulle aziende digitali apre un nuovo scontro economico con gli Stati Uniti che non fa bene all’Italia

Cartellino giallo per la web tax. Martedì il dipartimento del Commercio americano ha aperto un’indagine sui paesi che hanno introdotto o stanno valutando imposte sui servizi digitali. L’Italia si trova, suo malgrado, in prima fila: dopo un lungo tira e molla, da gennaio è in vigore un tributo pari al 3 per cento dei ricavi delle piattaforme online con un fatturato globale pari almeno a 750 milioni di euro, di cui 5,5 nel nostro paese. La norma non è diversa – se non nelle soglie e nell’aliquota – da quelle in vigore in altre nazioni coinvolte nel procedimento americano, cioè Austria, India, Indonesia e Turchia. Ce n’è pure per quelli che, per ora, stanno solo discutendo provvedimenti analoghi ma non li hanno ancora formalmente messi in campo: Brasile, Repubblica ceca, Spagna e Regno Unito. E poi il bersaglio grosso: l’Unione europea, che ha ipotizzato una digital service tax (assieme a una tassa sulle emissioni climalteranti) per finanziare la Next Generation Eu, cioè il fondo per la ripresa da 750 miliardi di euro.

  

Il Trade representative statunitense, Robert Lighthizer, di concerto col presidente Donald Trump, intende verificare se queste misure rischiano di danneggiare ingiustificatamente le imprese americane. L’obiettivo principale dell’indagine è capire se le digital tax siano “irragionevoli”, alla luce delle norme nazionali e internazionali su extraterritorialità, individuazione delle basi imponibili e discriminatorietà. Se verrà accertata una condotta “unfair”, la Casa Bianca potrebbe reagire con dazi o sanzioni. Ci sono almeno tre ragioni per cui questa iniziativa non va sottovalutata. In primo luogo, è indiscutibilmente vero che le imposte digitali muovono dalla presunzione che le Big Tech abbiano una condotta illecita e pertanto ne tassano i ricavi, anziché gli utili. In tal modo, violano uno dei princìpi cardine della fiscalità moderna. D’altronde, se le autorità fiscali hanno evidenza di comportamenti abusivi da parte delle multinazionali del web, perché non li contestano direttamente? In realtà, quando ci sono i presupposti, lo fanno eccome, senza suscitare particolari proteste da parte di Washington. Va detto, peraltro, che l’accanimento contro le piattaforme online ha del paradossale: l’eventuale elusione non va a scorno degli stati nei quali le imprese vendono i loro prodotti, ma di quelli dove avviene la produzione. Come ha scritto Dario Stevanato, “trattandosi di multinazionali americane, a essere erosa è dunque la potestà impositiva degli Stati Uniti, non quella dei paesi europei” (Il Foglio, 12 settembre 2017).

  

Secondariamente, che ci sia un intento in senso lato anti americano è abbastanza evidente dalle stesse dichiarazioni dei fautori di queste norme. Per esempio, l’ideatore della nostra web tax, il ministro Francesco Boccia, prima di ottenerne l’approvazione, si lamentava della “preoccupante subalternità economica e culturale alle multinazionali americane del web”. Inoltre, la Commissione europea ha appena messo in consultazione un nuovo “strumento” per “porre rimedio ai problemi strutturali di concorrenza dei vari mercati”, suggerendo pure una “regolamentazione specifica ex ante per le piattaforme”. Insomma, l’Europa sta flettendo i muscoli contro le imprese online, e gli Stati Uniti non vogliono stare a guardare. Simmetricamente, Trump può avere tutte le ragioni del mondo, ma le lamentele contro il protezionismo europeo sono assai poco credibili in bocca all’uomo che più di tutti ha minacciato e usato le ritorsioni commerciali come pistola politica da mettere sul tavolo di tutti i negoziati.

  

Da ultimo, gli americani hanno creato un precedente che potrebbe tornare utile tra poco. Oltre ai profitti digitali, infatti, Bruxelles sembra voler finanziare il Recovery fund anche con una nuova carbon tax, che potrebbe colpire i prodotti d’importazione. A differenza della digital tax, quella che gli esperti chiamano carbon border adjustment tax ha una sua univoca razionalità, ma nondimeno può essere un ulteriore elemento di scontro con la Casa Bianca (e, ironicamente, con la Cina). Quindi, l’Italia con la sua web tax si candida a essere, assieme all’Austria, il ventre molle dell’Europa, perché si trova messa in mora sia da Washington (che contesta alla radice questo tributo), sia da Bruxelles (che vede nel web un imponibile intrinsecamente continentale e non può tollerare la proliferazione di web tax nazionali). Da un lato abbiamo disperato bisogno dei finanziamenti Ue, dall’altro non possiamo permetterci una conflittualità troppo accesa con la Casa Bianca, e dall’altro ancora rischiamo di vedere la futuribile tassa digitale europea entrare in competizione diretta con un balzello nazionale, a quel punto destinato a essere superato. C’è un ulteriore aspetto, di cui avremo la conferma nei prossimi mesi: le previsioni di gettito contenute nella relazione tecnica che accompagnò la norma (708 milioni di euro nel 2020) sono molto probabilmente eccessive, mentre una stima più realistica fa scendere l’asticella a meno di un quarto di tale cifra.

  

Insomma: i pregiudizi anti digitali rischiano di innescare una pericolosa faida con gli Stati Uniti. Non è chiaro cosa possa trarne di buono l’Europa né quale interesse abbia l’America ad alzare il livello dello scontro, ma l’Italia ha tutto da perdere e nulla da guadagnare.

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